Abstract:
La massima secondo cui il torturato che riesce a resistere alla tortura deve essere assolto ipso facto conferisce alla tortura giudiziaria una ratio inequivocabilmente ordalica. Tuttavia, il collocare al di fuori del giudice la causa della decisione riflette, prima ancora che un ragionamento divinatorio, una serie di preoccupazioni morali. Innanzi tutto, quella per la responsabilità morale della sentenza: rimettere quest’ultima alle capacità di resistenza dell’imputato piuttosto che al convincimento del giudice significa deresponsabilizzare moralmente l’autorità pubblica; ma significa, anche, lasciare un residuo di autonomia (e di speranza) all’imputato. L’immensa sproporzione di potere tra Stato e individuo posta in essere dal processo inquisitorio è tale da richiedere l’azione di una ratio compensandi, una regola che, privando l’autorità punitiva del pieno controllo sulla causa, possa agire in favore del convenuto. La sua assoluzione, perciò, non risponde al giusto secondo diritto, ma al giusto secondo natura, che il processo inquisitorio viola e che la ratio assolutoria (cioè ordalica) della tortura ripristina.