Abstract:
A partire dagli anni 60 la delocalizzazione produttiva verso i paesi dell’Est è stata scelta da molteplici aziende, in particolare del nord Europa e Nord America, spinte soprattutto dall’attrattiva di un più basso costo della manodopera. Dall’inizio degli anni 2000 però si è riscontrata una debole ma costante spinta al rientro in patria ( back reshoring) , o quantomeno in paesi prossimi (near reshoring). L’elaborato volge alla dimostrazione che l’inversione di rotta non è provocata tanto da cambiamenti delle condizioni esogene, ma molto più dalla consapevolezza da parte dell’azienda di aver “sbagliato mossa” con la delocalizzazione, essendosi concentrata solo sul minor costo del lavoro e avendo tralasciato altri aspetti. I principali motivi del reshoring infatti non risiedono nel riallineamento del costo del lavoro, ma in problemi quali bassa qualità, costi di trasporto elevati, poca flessibilità, mancanza di infrastrutture. Inoltre il “cambiamento di idea” avviene circa soltanto a 2-5 anni dalla precedente delocalizzazione. Queste tesi sono confrontate con i feedback ricevuti da una selezione di aziende italiane che hanno effettuato il rientro ( sia in prima persona che in termini di scelte in outsourcing). Ad oggi con 79 aziende rientrate l’Italia si attesta a secondo stato a livello mondiale per reshoring e segue soltanto gli Stati Uniti (forti di un settore manifatturiero molto potente e di condizioni più favorevoli alla produzione come il minor costo dell’energia). Seguono Germania e UK che hanno saputo attirare di nuovo le aziende con adeguate agevolazioni.