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E’ affermazione diffusa fra gli interpreti del diritto quella secondo cui uno dei tratti distintivi della rinnovata disciplina del fallimento – così come si è venuta delineando all’esito di un complesso percorso di riforma iniziato con l’approvazione del decreto legge n. 35 del 2005, passato attraverso il decreto legislativo n. 269 del 2007 (cosiddetto “decreto correttivo”) e culminato negli ulteriori atti emendativi di cui al decreto legge 31 maggio 2010, n. 78 – sia costituito da una decisa valorizzazione dell’autonomia a forme negoziate di soluzione della crisi dell’impresa.
Ad una disamina più approfondita, tuttavia, ci si avvede che già la disciplina previgente – almeno nell’interpretazione propostane dalla giurisprudenza, anche di legittimità – offriva modelli di soluzione della crisi alternativi alla dichiarazione di fallimento, sebbene più orientati verso l’obiettivo della liquidazione dell’impresa, che non di conservazione della stessa. In tale prospettiva, dunque, il vero elemento di novità, introdotto dal legislatore della riforma, è consistito nel farsi espressamente carico del problema che costituiva il maggior ostacolo alla diffusione di pattuizioni di tale natura: la loro inidoneità, in assenza di specifica normativa (giusto il disposto dell’art. 1372 cod. civ.), ad esplicare effetti protettivi, per i creditori partecipanti all’accordo, anche nei confronti di quelli che non vi aderiscano.
A tale problema ha inteso, appunto, offrire risposta l’art. 182 bis della l. fall., dettando una disciplina in relazione alla quale, tuttavia, sono stati individuati alcuni profili di criticità, che saranno oggetto d’esame nella parte conclusiva di questo studio, alla quale rimandiamo per una più approfondita analisi. Tra questi: il significato da attribuire all’espressione “regolare” pagamento dei crediti estranei; il valore da riconoscere all’accordo in assenza di sua omologazione, ovvero, nell’ipotesi opposta, l’individuazione dei limiti entro i quali può esplicarsi l’intervento dell’autorità giudiziaria (a riguardo, la giurisprudenza oscilla fra la tesi che ipotizza un mero controllo sul rispetto della procedura, e quella che predica, invece, la necessità di un riscontro sulla concreta attuabilità del piano di rientro); il riconoscimento dell’irretroattività di un eventuale accordo in frode ai creditori (problema che involge, evidentemente, quello dei rapporti fra la norma suddetta e l’art. 67, comma 3, lettera e) l. fall.)
A far da sfondo a tali interrogativi vi è il problema di natura più squisitamente dogmatica e civilistica, che sarà oggetto d’esame nel secondo capitolo, della riconducibilità o meno di simili “contratti bilaterali plurisoggettivi” (come sono stati definiti dalla giurisprudenza di merito) entro schemi negoziali tipici. |
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