Tutto è Dio o divino nel troppo divino Aristotele: la concezione teologica aristotelica nei passi tratti dal Corpus e nel libro terzo del De philosophia

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dc.contributor.advisor Natali, Carlo it_IT
dc.contributor.advisor Laks, André it_IT
dc.contributor.author Botter, Barbara it_IT
dc.date.accessioned 2010-03-08T08:11:12Z it_IT
dc.date.accessioned 2012-07-30T07:16:03Z
dc.date.available 2010-03-08T08:11:12Z it_IT
dc.date.available 2012-07-30T07:16:03Z
dc.date.issued 2003-01-24 it_IT
dc.identifier.uri http://hdl.handle.net/10579/480 it_IT
dc.description.abstract Il presente lavoro é il frutto di uno studio svolto in cotutela con l'università francese Charles de Gaulle-Lille 3 di Lille. La tesi si divide in due parti distinte aventi come anello di congiunzione la concezione teologica politeista di Aristotele. Nella prima parte abbiamo esaminato la concezione teologica aristotelica nei trattati del Corpus. Nella seconda parte abbiamo analizzato la concezione teologica aristotelica nei frammenti del libro III del De Philosophia. Il nostro proposito, inizialmente, fu quello di esaminare solo i frammenti dell'opera perduta dello Stagirita, ma lo stato frammentario in cui l'opera ci è pervenuta ne rende ardua la comprensione, la quale sarebbe risultata, a sua volta, frammentaria e priva di unità. Temendo che Aristotele avrebbe potuto muoverci lo stesso rimprovero che mosse a Speusippo, nel libro N della Metafisica, ossia di riunire "una accozzaglia di episodi sconnessi, come una scadente tragedia", ci si è rivelato necessario esaminare dapprima i passi teologici contenuti nel Corpus, ì quali ci hanno permesso di avere un quadro generale delle questioni che avremmo dovuto affrontare, e di dare una direzione orientata al nostro lavoro. Nel nostro studio fecalizziamo dunque l'attenzione sui vari problemi concernenti la teologia di Aristotele, a partire dalle dottrine enunciate nel De Philosophia, che sembra contenere una concezione più tradizionale della teologia, fino al Motore Immobile di Metafisica Lambda, passando attraverso l'analisi di alcuni giudizi sugli dei tradizionali, contenuti nelle Etiche e nella Politica, in alcuni passi del De Caelo e del De Motu Ammaliimi; proseguendo attraversoo l'indagine sulla teologia astrale del De Caelo, fino a concludere con lo studio dei problemi sollevati dalla "scienza teologica" di Metafisica. Epsilon, 1. La linea di ricerca che abbiamo proposto consiste nel comprendere la teologia aristotelica nella sua intrinseca unità, facendo vedere come il dio immateriale di Metafisica Lambda e il dio cosmico, ossia il mondo stesso, e in particolare la parte eterea di esso, non diano luogo ad alcun diteismo; e come non sorga contraddizione tra la benevolenza degli dei, quale traspare da alcuni passi delle Etiche e della Politica e l'indifferenza del Motore Immobile, il quale sembra rimanere estraneo a queste debolezze più propriamente umane. Nel primo capitolo del nostro lavoro abbiamo lasciato un certo spazio all'esposizione della posizione evoluzionista di W. Jaeger e dei suoi discepoli. Ci rendiamo conto, infatti, di come l'opera jaegeriana del 1923 abbia segnato una tappa importante nella storia della esegesi aristotelica, e come abbia acquisito un senso preciso l'attenzione per le opere giovanili dello Stagirita proprio grazie all'impegno di Jaeger, benché non sempre il metodo storico genetico abbia condotto a delle soluzioni soddisfacenti. Possiamo affermare che l'esame della posizione evoluzionista mi è stato utile soprattutto per segnalare lo status quaestionis a proposito dei seguenti argomenti: -se esista una esposizione di scienza teologica nel corpus aristotelicum; -se il coronamento del ragionamento teologico dello Stagirita sia l'esposizione di Metafisica Lambda; -se testi quali il De Caelo, Fisica, o il De Philosophia propongano opinioni teologiche alternative o discordanti rispetto a quanto dimostrato nella Metafisica.; -se le opinioni teologiche riportate nei testi di etica o di politica rivelino una certa trasparenza da parte del filosofo, o se esse debbano essere considerate della affermazioni di convenienza. Il primo punto che abbiamo preso in esame nel nostro lavoro è stato l'ultimo di quelli elencati, ossia la presenza di una benevolenza divina nei giudizi politici e morali di Aristotele. Nelle Etiche e nella Politica Aristotele sembra ben disposto ad accettare le pratiche e i riti tradizionali nei confronti degli dei. Non esita ad affermare che gli dei sono i nostri più grandi benefattori; e nella Politica ritiene necessario istituire delle raccolte di fondi pubblici in modo tale da procurare introiti per le liturgie. Ora, questo genere di dichiarazioni urta fortemente di fronte ad una interpretazione teologica esclusiva di Metafisica Lambda, almeno su tre punti: nelle opere di Etica Aristotele si rivolge a "dei" al plurale e in modo indifferenziato. Per coloro che hanno creduto di trovare in Lambda una posizione monoteista l'incompatibilità è pressoché totale; gli dei tradizionali si trovano in una prossimità, rispetto all'uomo, difficilmente conciliabile con l'enorme distanza delle sostanze separate; le opere di argomento etico e politico affermano una sorta di provvidenza, o almeno di benevolenza divina, del tutto incompatibile con l'indifferenza del Motore Immobile. Di fronte a questi problemi gli studiosi hanno reagito in due modi differenti", alcuni sostenendo che Aristotele, in fondo, non aderisce alle convinzioni popolari di cui si rende portavoce. Questa opinione, tuttavia, poggia su una idea accettata aprioricamente, ossia che per Aristotele la religione popolare sia una menzogna. Si può anche salvare il salvabile, dicendo che, in fondo, la religione greca sì riduce a dei riti esteriori, che non esigono una particolare disposizione d'animo per essere compiuti. Questa affermazione non è del tutto priva di fondamento, anche se di primo acchito può sembrare eccessiva. Infatti la religione greca è una religione cittadina, fondata sul culto degli dei della città, o, più tardi, sul culto del sovrano divinizzato o dell'imperatore. Perciò essa è un fatto più culturale che spirituale. Essa non richiede una conversione nel bios o una ardente fede religiosa, per essere praticata. In effetti Aristotele poteva benissimo partecipare ai riti tradizionali senza credere a tutti i miti che ammantavano gli dei in questione. Ma non è sulla base della fede ai miti, o solo per tradizione che egli esige le pratiche religiose, bensì è sulla base di una convinzione più profonda e meno irrazionale: la benevolenza degli dei. Inoltre, c'è un passo del libro V della Politica, al capitolo 11, in cui Aristotele nota come uno dei mezzi di cui si serve il tiranno per mantenersi al potere è di fingere uno zelo particolare nei confronti degli dei. Il tiranno evita, in questo modo, i complotti premeditati contro di lui, poiché i cittadini ammettono che gli dei siano al suo fianco. Credo che nessuno, senza cadere nel ridicolo, presterebbe ad Aristotele, nel momento in cui egli fa riferimento agli dei e ai culti, il pragmatismo machiavellico che egli constata nel tiranno. C'è un altro modo di reagire alla presunta incongruenza fra le "teologie" di Aristotele. Questa tendenza, che abbiamo definito "realista" nel corso del nostro lavoro, è capeggiata da Richard Bodéus. Lo studioso francese non mette in dubbio il fatto che Aristotele parli sul serio, quando il filosofo fa appello agli dei olimpici. Egli, nella sua opera del 1992 Aristote et la théologie des vivants immortels, ribadisce più volte che il filosofo condivide la devozione dei suoi padri nel rispetto per gli dei della tradizione. Più precisamente Bodéus sostiene due tesi fondamentali, di cui l'una ci é parsa più convincente dell'altra. La prima consiste nell'affermare che i riferimenti alla concezione tradizionale degli dei non devono essere interpretati nel quadro di una teologia scientifica, ma al contrario, che certe analogie con le credenze tradizionali possono aiutare a cogliere l'oggetto delia filosofia prima. La seconda consiste nell'affermare che Aristotele credeva all'esistenza degli dei, tali quali li presenta la tradizione, ossia come dei viventi immortali dotati di anima e corpo, preoccupati della buona condotta degli affari umani. Quest'ultima ipotesi ci persuade meno. Bodéus ha esaminato e portato come esempio, a sostegno di quella che egli chiama "la piété d'Aristote" un certo numero di passi aristotelici tratti dal Corpus. In seguito all'esame di suddetti testi a noi è parso che Aristotele sia meno deciso di quanto non voglia lasciar credere. Infatti, talvolta menziona certe credenze religiose solo in forma ipotetica; altre volte impiega l'uso del condizionale; altrove, ancora, introduce l'affermazione con un egoumetha (noi crediamo, noi pensiamo). Abbiamo avuto l'impressione che l'uso frequente di questi artifìci stilistici, ogni qual volta si tratti di introdurre un giudizio sugli dei olimpici indebolisca un po' la posizione di Aristotele. Un altro punto che non ci ha convinto nel testo di Bodéus è che, per lo studioso francese, gran parte dell'adesione di Aristotele alle credenze tradizionali riposa sul parallelismo stabilito con Piatone. L'argomento di Bodéus consiste a mostrare che, in assenza di una dichiarazione esplicita di disaccordo, Aristotele conferma la concezione del Maestro. A noi pare che qui ci sia un problema metodologico, perché non si può pensare che un autore aderisca in tutto e per tutto a ciò che non confuta esplicitamente. Dopo le critiche, spezziamo una lancia a favore di Bodéus. Dai passi da lui presi in esame emerge un punto importante, che tale fu per Aristotele, e tale é rimasto nel nostro lavoro: di tutto ciò che è stato raccontato in modo mitico sugli dei, la sola cosa chiara e da conservare, dice il filosofo, è che gli dei sono sostanze prime. Per concludere su questo punto, l'impressione che abbiamo avuto è stata che Aristotele parli sul serio quando si riferisce agli dei della tradizione, e perciò che egli rispetti e condivida la teologia popolare, ma che il suo atteggiamento sia più distaccato rispetto a quello tenuto, per esempio, da Piatone. Piatone è più vicino alla religione popolare, infatti di essa accetta anche il mito e il rito, perché Piatone vive in un ambiente in cui la religione fa parte integrante del contesto politico, ma soprattutto perché Piatone nutre un interesse ardente per la politica. Per Piatone la filosofia deve prendere il governo della città; per Piatone la filosofia è ricerca di una elevazione ad un livello di conoscenza superiore rispetto all'esperienza fenomenica. Questa ricerca resta, tuttavia, vuota se il filosofo, una volta liberatosi dalle catene che lo tengono imprigionato nella caverna, e una volta che ha preso piena coscienza del mondo ideale, non rientra nel l'oscuro ambiente dove i suoi concittadini sono rimasti, per assumere la guida pedagogica e politica della città. Piatone riesce a conciliare due poli lontani: la ricerca intellettuale e l'impegno politico. Aristotele giudica eccessivo questo tentativo. Nella filosofia di Aristotele l'impegno politico va scemando e ciò che rimane è l'interesse per gli studi. L'ipotesi di alcuni studiosi intorno ad un preciso intento politico nel pensiero di Aristotele non ci ha convinto. Se questa ipotesi fosse vera, la brevità e la fine tragica della tirannide di Ermia non deporrebbero a favore dell'efficacia della formula aristotelica, e della bontà dei consigli dati dal filosofo al tiranno. Anche Aristotele vive in un ambiente in cui la religione si integra pienamente nel contesto politico, ma lo Stagirita trascorre gran parte della sua vita nella scuola, perciò è più vicino ad una adesione argomentata ad un principio divino, come quella che appare, per esempio, nel libro X delle Leggi di Piatone. Insomma non credo che Aristotele abbia mai ingaggiato una battaglia contro gli atei per far valere Sa sua personale fede negli dei. Ma non escludo che quando Aristotele si rivolge agli dei della tradizione egli mantenga un atteggiamento franco. Un secondo punto della tesi consiste nel verificare se testi quali il De Caelo, De Mota Ammaliimi, o Fisica VII-VIII propongano opinioni discordanti in materia teologica, rispetto a quanto appare in Metafisica Lambda. Anche in questo caso l'esame dei risultati a cui sono approdati gli studi genetisti ci hanno permesso di segnalare lo status quaestionis. Il movimento degli studi jaegeriani, infatti, oscurò il prestigio di Metafisica Lambda per due ragioni: per prima cosa Jaeger si sforzò di mostrare che Lambda non era il coronamento di tutto il sistema aristotelico, ma solo una tappa del tutto provvisoria nell'evoluzione del pensiero di Aristotele. In secondo luogo, Jaeger, per mettere in rilievo le tappe della presunta evoluzione aristotelica, attirò l'attenzione degli studiosi su differenti testi, frammentari o conservati, volentieri ignorati fino a quel momento, i quali sembravano contenere gli elementi di una teologia sensibilmente diversa dalla teologia di Lambda, e suggerire esitazioni da parte di Aristotele su dottrine che gli studiosi ritenevano oramai definitivamente acquisite. Gli studi posteriori invalidarono il primo punto, e rifiutarono il carattere puramente platonico, e perciò superato di Lambda, ma accettarono la sfida lanciata da Jaeger, e cercarono di rintracciare le tappe di questa evoluzione teologica. Dalla parabola evolutiva emergono però delle incongnienze tra i testi intorno alla natura dell'ente divino, e diventa interessante sapere se Aristotele passi da un tipo di teologia, ossia Sa teologia degli dei immanenti, che parrebbe trionfare nel De Philosophia, e nella teologia astrale del De Caelo, alla teologia degli enti divini separati dall'universo sensibile, la quale muoverebbe i primi passi nei libri VII e VIII della Fisica, e culminerebbe in Metafisica XII. Il nocciolo della questione si colloca, come spesso accade, ad un livello superiore del semplice confronto di testi. Coloro che vedono in Lambda il coronamento della teologia aristotelica sentono la necessità di situare "al di fuori della natura" il principio ultimo del divenire, in modo da intendere la cosiddetta "trascendenza" del divino, ossia il fatto che esso sia separato dalla natura e immobile, in un significato più prossimo a quello cristiano. Secondo me, tuttavia, si tratta di risolvere prima di tutto un problema preliminare, che consiste nel capire se, per un filosofo greco, situare il principio divino al di fuori della natura contribuisca veramente a chiarire e a risolvere i problemi relativi alla natura degli dei. In verità, per ì Greci, la realtà degli dei non è per nulla legata, come nella tradizione giudaico cristiana, all'esistenza di un principio ultrasensibile, creatore da cui dipenderebbe il mondo creato. I Greci avevano, per tradizione, il sentimento della presenza di dio nella natura. Essi si interrogavano sulla forma degli dei, sulle loro manifestazioni, o sulla loro presenza in questo o quel fenomeno. L'orientamento prevalente del pensiero greco, in materia teologica, pare essere stato quello di vedere nelle divinità qualcosa di manifesto, anzi di massimamente manifesto, e perciò indubitabile. Wilamowitz esprime icasticamente questa idea con l'asserzione che, per i Greci, "die Goetter sind da". Ma prima di Wilamowitz, Sesto Empirico negli Schizzi Pirroniani ha emblematicamente espresso questa convinzione: lo scettico ha il diritto e il dovere di mettere in dubbio le credenze che ha ereditato dalla tradizione, ma tra esse non appare l'esistenza degli dei. Lo scettico sa che gli dei esistono. Tutto ciò sembra insegnare l'inverso di ciò che si ha l'abitudine a pensare, ossia che il pensiero teologico e il pensiero metafisico, nella tradizione greca, non si incontrano spontaneamente. Con questi dati sotto gli occhi, la vera questione non è di sapere se i testi di Aristotele su questioni metafisiche sono stati da lui concepiti come opere di teologia filosofica, ma si tratta di sapere quando e perché la lettura che si è fatta dei testi metafisici si è sforzata di trarre da essi una teologia filosofica. Un terzo problema che abbiamo affrontato nel corso della prima parte della tesi è stato quello della "scienza teologica" (episteme theologike) di Metafisica Epsilon 1. L'esegesi tradizionale trae pretesto dal fatto che il filosofo parla almeno una volta di "scienza teologica" a proposito della filosofia prima, per concludere che la metafisica è la teologia scientifica dello Stagirita. A nostro avviso si tratta anzitutto di vedere se "teologia" e "scienza teologica" coprano lo stesso ambito o se addirittura si identifichino. Ora, quando Aristotele usa termini quali theologìa, theologoi, o usa il verbo theologousìi pensa al discorso tenuto dai poeti sugli dei della tradizione. Un grande merito di Bodéus è stato quello di aver mostrato che la teologia non è scienza, e non esiste scienza che potrebbe avere per oggetto gli dei della teologia tradizionale. Infine, da un esame dei termini composti in -logia è emerso che essi hanno un significato negativo e servono ad indicare un modo di parlare giudicato inadeguato. Basti pensare a termini come pseudologia, kakologia, ponerologia. Se si approfondisce lo studio si scopre che il carattere peggiorativo non è dovuto, come potrebbe sembrare immediatamente, agli aggettivi pseudes, kakos, poneros, bensì al suffisso -ìogia, il quale caratterizza uno stile che si presta alla riprovazione. In effetti tre solo termini, fra quelli composti in -logia, sembrano racchiudere un significato positivo, ossia edulogos, che si trova in un frammento di Pindaro, semnologein, spondaiologein, ma questi ultimi due sono inseriti in un contesto ironico. Teologia non fa eccezione. Essa indica la pratica di "raccontar storie sugli dei" da parte dei poeti. Che rapporto sussiste, dunque, fra la teologia e la scienza teologica? Ci viene in soccorso l'uso di un altro vocabolo che, a sua volta, appare in entrambe le accezioni: astrologia e astroìogike episteme. L'astrologia consiste nell'abilità di capire in quale momento della notte, del mese o dell'anno ci si trovi. È una pratica che si può apprendere dai cacciatori o dagli esperti dell'arte nautica. La scienza astrologica è la scienza degli astri, nata dall'applicazione delle matematiche allo studio dei movimenti celesti. In che rapporto stiano le due lo dice lo stesso Aristotele in un passo dell'Etica Eudemea, I 5. Trattando della scienza astrologica, Aristotele dice che, per accidente, essa potrebbe rivelarsi utile al navigatore, ma in sé non mira a nessuna utilità pratica. Parimenti, la scienza delle cause prime immutabili, ossia la scienza teologica (e abbiamo visto il motivo per cui la scienza delle cause prime immutabili può a giusto titolo essere nominata "teologica") è coltivata senza la preoccupazione di quietare gli animi umani, o rispondere alle inquietudini degli uomini nei confronti degli dei. Nel migliore dei casi, detta scienza potrebbe, all'occasione, essere utile al poeta che canta gli dei, ma ciò accadrebbe "per accidente". Piuttosto sarà più frequente il caso contrario, ossia che la teologia tradizionale sia utile alla scienza teologica, ossia alla scienza delle cause prime, poiché l'oggetto di questa scienza ricade spesso nel dominio dell'indicibile e abbisogna di metafore per trovare un mezzo di espressione. La filosofia prima, dunque, non é una teologia. Per Aristotele la teologia é altra cosa; essa si riferisce ai poeti che discorrono sugli dei musikos. La filosofia prima, come diceva Reale ancora negli anni '60, non si può ridurre né a teologia, né a ontologia. La filosofia prima é aitiologia, omologia, ousiologia e teologia. La filosofia prima é scienza teologica, perché é scienza delle cause e dei principi (Metafisica, A 2, 983a89); dio sembra a tutti una sorta di principio, perciò la filosofia prima é teologia in quanto ha per oggetto anche enti divini, ed é posseduta dal dio (Metafisica, A 2, 983a5-10). Ma non tutte le cause si riassumono in dio. Tra le cause c'è anche dio, ossia qualcosa da cui gii altri enti dipendono. Uno tra i principi, o tra le cause, può essere considerato un dio, ma ciò, a nostro avviso, non basta a fare di Larabda una teologia scientifica. A monte di questa conclusione sta quello che nel nostro lavoro abbiamo definito il "principio del malista" e la funzione attributiva del termine "dio". In breve, "l'argomento del malisto" consiste a far intervenire la nozione di "dio" come un argomento a fortiori. Nel caso della filosofia prima, esso consiste ad affermare che, nel momento in cui si riconosce una certa dignità alla fisica, che studia le realtà divine visibili, a maggior ragione {malista) si deve ammettere la dignità della scienza che studia le cause di queste realtà. Aristotele non intende dimostrare che i veri dei sono nelle realtà immutabili piuttosto che nelle realtà sensibili, o sono al di là del mondo fisico, piuttosto che nel mondo fisico stesso. Il suo proposito è di stabilire la dignità superiore di una scienza in virtù del suo oggetto, mostrando che questo oggetto merita l'apposizione "dio", o l'attributo "divino" più dì ogni realtà fisica. Per esempio, nella distinzione fatta da Aristotele in Metafisica Epsilon 1, si dice dapprima quali siano le scienze teoretiche, e quali i loro oggetti. Ma immediatamente dopo si dice che gli oggetti della filosofia prima sono limitati (e qui compare una prima restrizione) ai motori immobili degli astri: i motori immobili degli astri sono le cause degli enti divini visibili. E' a causa di questa restrizione che quella scienza è detta "teologica" per essenza, essendo d'altra parte l'aggettivo theologike un apax nel corpus aristotelicitm. In altre parole, l'argomento del malista consiste nel pensare che il sostantivo theos e l'aggettivo theion non indichino delle sostanze, bensì siano una apposizione e un attributo utili a distinguere un ente dagli altri, un grappo di enti da altri, o ancora, il grado supremo in una serie ordinata. Per esempio, in Fisica I 9, Aristotele dice che la filosofia prima ha per oggetto l' eidos in sé e in quanto forma di altro (I 9 a34-36), ma, procedendo nell'indagine, si rivelerà necessario compiere una restrizione. Per esempio, in II 2 è detto: "determinare però la modalità e il concetto del separato è compito della filosofia prima (pos d'echei to choriston hai ti esti philosophias ergon dìorisai tes protes). Lo stesso in De Anima I 1: "quanto alle proprietà dei corpi ... quelle che sono considerate avere una esistenza separata, esse saranno oggetto di interesse della filosofia prima". Un restrizione analoga ritroviamo in Lambda 7, e infine in Epsilon 1, quando Aristotele, dopo aver distinto le scienze teoretiche specifica il contenuto della filosofia prima, ed afferma che: "se la divinità è presente in qualche luogo, essa è presente in una natura siffatta, ed è indispensabile che la scienza più veneranda si occupi del genere più venerando. E se le scienze teoretiche sono preferibili alle altre, questa è preferibile alle altre scienze teoretiche". Ciò accade perché, dice ancora Aristotele, "se tutte le cause sono eterne (facciamo presente che il concetto di "eternità" è strettamente legato a quello di "divinità"), a maggior ragione (malista) lo sono quelle di cui si occupa questa scienza, perché sono cause degli enti divini visibili che si manifestano ai nostri sensi". In questi passi Aristotele afferma che una sezione della fisica, ossia quella che ha per oggetto i cieli e il mondo astrale, è già scienza divina, ma è ancora legata ad una certa potenzialità, dovuta al fatto che ì cieli sono costituiti ancora di materia. Il Motore Immobile, dunque, è divino per essenza, perché possiede la qualità del divino ad un titolo superiore rispetto ai cieli. Quello che abbiamo chiamato il "principio del malista" è un argomento a fortiori, perché "divino", in questo caso, è sinonimo di elemento prioritario, di elemento di natura, eterogenea rispetto ad altri. L'argomento del malista consiste nel dire che Aristotele non fa di "dio" l'oggetto supremo di una ricerca teologica, ma, per esempio, nel corso dell'indagine sulle cause e i principi, "dio" serve a distinguere, a marcare una differenza, altrimenti difficilmente esprimibile. Ci teniamo a ribadire il fatto che quando parliamo di "dio" parliamo di una apposizione, e quando parliamo di "divino" parliamo di un attributo, perché con ciò vogliamo insistere sul fatto che il problema dell'esistenza degli dei non venne affrontato da Aristotele e da Piatone con gli stessi strumenti concettuali con cui sarebbe posto da un apologista cristiano. Le prove dell'esistenza di dio, nel pensiero medioevale e moderno, partono, da un punto di vista teologico, dall'ammissione di una inaccessibilità o non manifestatività della divinità, che è del tutto altra dal mondo visibile; ciò rende possibile il dubbio intorno alla sua esistenza, e quindi giustifica l'esistenza di prove. Da un punto di vista filosofico, le prove sull'esistenza di dio partono dall'attribuzione di una contingenza totale a tutto ciò che è differente da Dio, unica realtà necessaria. È chiaro che quest'ultimo presupposto non sia verificato in Aristotele; quanto al primo punto, abbiamo già detto che l'orientamento prevalente del pensiero religioso greco pare essere stato quello di vedere nella divinità qualcosa di manifesto, e perciò di indubitabile. Per cui la questione aperta non è tanto se la divinità esista o meno, ma in quale forma essa si realizzi nel modo più pieno. In mancanza di un concetto ben definito di divinità, o di dio, che ne escluda la pluralità, non è strano che il termine theos abbia, in Aristotele, un carattere predicativo. Nondimeno, crediamo che Piatone abbia formulato una dimostrazione razionale dell'esistenza di dio, una teologia speculativa, nel libro X delle Leggi, e che Aristotele si sia in parte servito di essa nel libro II degli Analitici Secondi. In questo testo decidere dell'esistenza di un ente significa verificare la pertinenza di una predicazione, ossia provare se un ente merita una certa attribuzione, attraverso la ricerca di un termine medio, che unisca il predicato al possibile soggetto referente. Questo procedimento permette di decidere dell'esistenza di un ente, anche se non dice nulla intorno alla sua essenza, alla sua natura. Per soddisfare questa esigenza, Aristotele si serve del procedimento dialettico, che, grazie alla capacità di mettere alla prova le opinioni correnti e quelle avvalorate dai migliori pensatori consente di inferire un certo numero di caratteristiche costanti della divinità. La prova dell'esistenza di dio elaborata da Aristotele negli Analitici Secondi è dotata delle seguenti caratteristiche: 1) dapprima viene posta la questione esistenziale (Q) in un profilo generale: per esempio, esiste un dio, o esso è frutto di una malsana opinione? Nel corso dell'argomentazione, la questione esistenziale assume un carattere più preciso e diventa una questione predicativa (Q'): per esempio, a certi enti possiamo dare altro nome che enti divini? Ossia l'apposizione "dio" o l'attributo "divino" conviene a questi esseri particolari? 2) la dimostrazione propriamente detta mira dunque a provare l'inadeguatezza o la convenienza di un attributo ad un soggetto; 3) la dimostrazione che gli dei esistono non pretende fondarsi sulla conoscenza di cosa sia essenzialmente dio. Il discorso si sviluppa come se sapere cosa sia un dio non sia rilevante ai fini della dimostrazione. Ossia, che gli dei esistano è evidente. Si tratta ora di capire se gli enti a cui vengono attribuite connotazioni divine sono realmente dei. Dobbiamo tuttavia confessare che negli Analitici Secondi la dimostrazione di esistenza non ha per oggetto gli dei, bensì gli enti in generale. Tuttavia se l'argomentazione del libro II può essere riferita anche agli dei, come si potrebbe inferire da un gioco di esempi utilizzato dallo stesso Aristotele, e come noi crediamo, la dottrina del Maestro del Liceo non è una timida innovazione di questioni di dettaglio, rispetto a quanto affermato da Piatone. Nel processo di conoscenza degli esseri sostanziali, più precisamente delle sostanze semplici, è necessario porre due interrogativi: - ei esti; - ti esti. L'uno consiste nel domandarsi, a proposito di una sostanza, se essa è (esistenza), l'altro a domandarsi, sapendo che esiste, cosa essa è (essenza). Aristotele illustra le due questioni attraverso due esempi. Nella questione di esistenza Aristotele si domanda se un centauro, oppure un dio, è o non é. Nella questione sull'essenza Aristotele si chiede cosa è l'essere dio, o cosa è l'essere uomo. A me pare che la scelta degli esempi sia significativa: la prima questione si riferisce ad un genere di sostanza la cui esistenza è dubbia, ossia il centauro o il dio. La seconda si fonda su un genere di sostanza, la cui esistenza è risaputa, ossia dio o l'uomo. La coppia dio/uomo compare in altri testi, in cui non viene messa in dubbio l'esistenza degli enti che i suddetti termini indicano (Metafisica Z 1, N 1). Insomma la sostituzione del termine uomo al termine centauro mi sembra indicare che, per Aristotele, non si può sapere se esiste o non esiste un centauro, ma non c'è dubbio sull'esistenza dell'uomo, così come di quella di dio. Quindi gli dei, come gli uomini, esistono. Ma cosa è l'essere dei? A questa questione, Aristotele risponde che è necessario chiedersi se il genere di enti che comunemente si designa con il termine "dio" sia veramente tale, ossìa è necessario verificare se ciò che si indica con il termine "dio" merita tale attribuzione. Il dubbio di Aristotele non è il dubbio scettico di colui che si pone di fronte alla possibilità di non trovare sotto l'appellativo "dio" qualcosa di reale. Il problema di Aristotele consiste piuttosto nel trovare un meson, ossia un termine medio, che renda ragione della predicazione del termine "dio" ad un certo soggetto, ossia che motivi l'attribuzione dell'apposizione/attributo "dio/divino" a certi enti determinati. Dice Aristotele: "Quando vogliamo stabilire se un oggetto è semplicemente, noi ricerchiamo se sussista o non sussista un termine medio". Nel caso degli dei é necessario che più termini medi interagiscano affinchè una sostanza manifesti il proprio carattere divino con evidenza. I termini medi che, variamente combinati, permettono di inferire la divinità di un ente sono: vita (Metafisica XII; VI 1, 1026a16); separazione: l'ente divino può essere separato nella natura, come per esempio gli astri e gli dei olimpici, oppure può essere separato in quanto é al di là della natura (T 8); pensiero (Metafisica XII 9, 1074b26); immutabilità (Metafisica VI 1, 1026al6;XI 7, 1064a33); eternità (Metafisica VI 1, 1026a17); possesso di facoltà sensitive e conoscitive superiori alle facoltà umane (T 15; Metafisica XII 7, e 9); immobilità (Metafisica XII 1, e 7); necessità (Metafisica XII 6, 1071b4); atto puro (Metafisica XII 6, 1071bi-20; 1071b21; 7, e 9); immaterialità o materia particolare (etere), in modo tale che anima e corpo non siano eterogenei fra loro e discordanti; semplicità (Metafisica XII 6, 1071b20; De Caelo II 288M-6; Etica Nicomachea VII 15, 1154b25-31;De Caelo I 2, 269a4-10); non composto e in atto (Metafisica XII 6, 1071b20); principio (Metafisica 12,983a8-10); dignità (De Caelo I 2; Metafisica XII 9; De Partibus Ammaliimi I I ) ; felicità e piacere (Etica Nicomachea X 8, 1178bS-9; 1178b25-27; Metafisica XII 7). Alcuni dei termini medi sopra indicati sono caratteristiche che indicano eccellenza; altri sono qualità che, per tradizione, vengono attribuite agli dei, ed esse si ricavano dall'esame delle ypolepseis. E importante procedere all'esame di questi giudizi tramandati nel corso della tradizione, perché non si può decidere della natura di dio a priori, e perché il linguaggio coglie, sebbene in modo oscuro, la realtà, e ciò permette ad Aristotele di nutrire una sorta di ottimismo gnoseologico nei confronti delle capacità conoscitive umane. La dimostrazione dell'esistenza di enti divini che assuma il termine "dio" come apposizione di determinati enti non è l'unica forma di dimostrazione delle sostanze divine che appaia negli scritti aristotelici. Anzi è di gran lunga più nota la dimostrazione di dio sviluppata in Metafisica Lambda. In questa opera il procedimento utilizzato da Aristotele è simile a quello che utilizzeranno i filosofi medioevali. La questione a cui questo tipo di dimostrazione offre risposta è: esiste un essere che possa realmente essere chiamato dio? Il problema, tuttavia, assomiglia solo a quello che porranno i filosofi medioevali, ma non è identico. Infatti per i medioevali il dubbio sorge in seguito a queste considerazioni: la divinità non è manifesta ed è assolutamente inaccessibile all'uomo; poiché la divinità è del tutto altra dal inondo visibile, sorge il dubbio che essa possa non esistere, e ciò giustifica la presenza di prove che quietino i turbamenti umani a questo proposito. Per Aristotele il problema aperto non è tanto se la divinità esista o meno, ma quali enti siano realmente dei, ossia in quale modo la divinità si realizzi nel modo più pieno. Aristotele risponde che esiste una realtà che realmente possa in modo pieno essere detta dio, e dimostra l'esistenza del Motore Immobile, ente divino vivente, eterno e separato. Ma il Motore Immobile é un dio perché é un vivente, ed é un vivente perché é pensiero. Contrariamente a quanto spesso si é affermato, l'argomentazione inferisce la divinità del Motore Immobile dal suo pensiero, non il pensiero dalla sua divinità. E curioso come Aristotele ricavi la conclusione che il Motore Immobile é dio. Il punto di partenza dell'intera argomentazione é il piacere di cui gode questo ente quando esercita la sua attività, il pensare. Ora, il pensiero é una forma di vita, e, in più, é piacere, quindi é una forma di vita ottima, felice ed eterna. Poiché il Motore Immobile ha vita eterna e felice é un dio, perché noi diciamo che un dio é un vìvente eterno ed ottimo. Per i Greci, infatti, gli dei sono dei viventi; gli dei sono superiori agli uomini perché immortali; infine gli dei sono beati. Il Motore Immobile é un vivente, é eterno, gode del piacere, perde é un dio; ma il fatto di essere un dio é un corollario che si aggiunge alla argomentazione aristotelica. Metafisica Lambda non é utile a dimostrare che per Aristotele dio esiste, o un dio esiste, o un dio per eccellenza esiste. Per i greci non ha senso porsi questa domanda, in quanto é evidente che gli dei esistono. Il contributo di Metafisica Lambda in ambito teologico é di aver dimostrato che tra le cause prime ce ne é una immutabile, immobile, che é pensiero e che si può dire dio. Nell'ultima parte del presente lavoro abbiamo analizzato i passi teologici contenuti nelle opere aristoteliche, allo scopo di verificare se le tesi da noi precedentemente sostenute trovavano conferma. In particolare, abbiamo riproposto le due tesi seguenti: 1) che Aristotele non si impegna personalmente in una lotta per la difesa delle credenze relative agli dei della tradizione, ma neppure le ignora, le smentisce o le rinnega. 2) La divinità, per Aristotele, come per tutti i Greci, è la caratteristica non dì un individuo, ma di un gruppo, di un genere, o più generi di enti. In altri termini, "dio" è una apposizione distintiva, o un attributo essenziale, ma non una sostanza, ossia non esiste un ente dio che non sia che dio. Theos é un nome comune, come anthropos o zoon, e ciò resterà valido fino al periodo in cui apparirà la traduzione della Bibbia. Il termine si può predicare dunque anche di enti diversi dagli dei della tradizione, senza per ciò cadere in contraddizione, o fondare un nuovo tipo di teologia. Il termine "dio", per Aristotele, indica una unità generica, non una unità numerica. Come l'astrologia studia gli astri, che sono numerosi, così la teologia studia gli dei, che sono numerosi. Il dubbio che ci ha indicato la direzione di ricerca é stato il seguente: - o esiste un essere divino per essenza, ossia un essere che non è che divino, ma allora ci dovrà anche essere una definizione che identifica perfettamente il divino. Ciò che noi in Aristotele non abbiamo trovato; infatti, il procedimento adottato da Aristotele per decidere dell'esistenza degli dei permette di decidere sì della loro presenza, ma non dice nulla intorno alla loro natura, alla loro essenza. Tutto accade come se sapere cosa sia un dio non sia necessario per sapere se un dio esiste; - oppure il divino é una unità generica, ma non una unità numerica. E allora Aristotele aveva ben il diritto ad essere politeista. Aristotele non accenna in modo esplicito né alla prima, né alla seconda ipotesi, ma la prima mi pare difficilmente sostenibile. Il politeismo aristotelico emerge dai passi del Corpus e dalle testimonianze del De Philosophia, al punto tale che i testi sembrano confermarsi reciprocamente. Per chiarire questo ultimo punto offriamo uno schema delle corrispondenze testuali, il quale offre, nello stesso tempo, un piano riassuntivo del nostro lavoro. Ce travail est une thèse en cotutelle avec l'Université lilloise Charles de Gaulle-Lille III. La thèse est divisée en deux parties bien distinctes, qui ont un sujet commun: la conception polythéiste de la théologie d'Aristote. La première partie est consacrée à la doctrine aristotélicienne des ouvrages du Corpus aristotelicum. La deuxième partie est consacrée aux fragments du livre III du De Philosophia. Au début notre projet était d'examiner seulement les fragments du De Philosophia, mais l'état fragmentaire du dialogue rend difficile la comprension du texte, qui devient, par conséquent, fragmentaire, sans unité, et difficile. C'est pour cela que nous avons abordé primierement les passages théologiques du Corpus, qui nous ont permis de brosser un tableau de la situation, et de donner une direction à cet étude. La thèse focalise l'attention sur plusieurs problèmes de la théologie aristotélicienne, à partir de la doctrine du De Philosophia, qui donne au lecteur l'impression d'une doctrine traditionnelle de la théologie, jusqu'à la philosophie du Moteur Immobile de Métaphysique Lambda. Notre attention porte aussi sur les passages de l'Ethique à Nicomaque et de la Politique qui concernent les dieux traditionnels; sur les passages théologiques du De Caelo, du De Motu Animalium, De Mundo, et Métaphysique Epsilon 1. La lecture que nous avons proposé consiste à comprendre la théologie aristotélicienne dans son unité intrinsèque. Nous nous avons proposé de montrer que le dieu immatériel de Métaphysique Lambda et le dieu cosmique, c'est-à-dire le monde et la partie d'éther du monde, ne donnent pas lieu au dithéisme; et que la bienveillance des dieux de l'Ethique à Nicomaque et de la Politique n'entre pas en contradiction avec l'indifférence du Moteur Immobile, qui n'est pas sujet à ces passion, à proprement parler, typiquement humaines. Dans le premier chapitre de notre travail nous avons décrit la position du mouvement des études génétistes de Jaeger et de son école. A' cela, deux raisons. Nous sommes, en effet, bien conscient que l'ouvrage jaegerienne du 1923 a marqué un point important pour l'histoire de l'exégèse aristotélicienne. Deuxièrement, les oeuvres du premier Aristote ont été étudié grâce aussi à l'attention et à l'acharnement de Jaeger. Toutefois, les études génétistes n'ont pas toujours eu succès. L'examen de la position jaegerienne nous a été utile sourtout pour signaler le status quaestionis sur le sujet qui nous occupe. Si l'on tente un rapide bilan des études aristotéliciennes sur la théologie, l'on a tôt fait de mettre en lumière, par delà les divergences de vues, un certain nombre de données apparemment sures, qui sont l'objet d'un large consensus chez les interprètes. 1) L'oeuvre conservée d'Aristote contient un exposé de science théologique auquel le philosophe fait allusion en Métaphysique E, 1 et K, 7. 2) L'exposé en question est celui d'une théologie naturelle, fruit de la seule intelligence humaine réfléchissant sans autre lumière que celle de la raison. 3) Il figure dans la Métaphysique, plus proprement dans le livre Lambda, où le philosophe démontre la nécessité de la substance séparée, immobile et motrice. 4) A' coté d'autres textes, peut-être plus anciens, les uns conservés {De Caelo, Physique, ...), les autres perdus {De Philosophia) qui proposent des vues théologiques concurrentes, le texte de Lambda représente très probablement le dernier mot d'Aristote sur le sujet. 5) Les opinions dont Aristote fait état par ailleurs touchant les dieux traditionnels ne sont pas prises par lui au sérieux ou, à tout le moins, n'infirment pas ses propres voies théologiques. Ces différentes thèses ne sont pas également assurées aux yeux des interprètes. En gros, nous les avons étudiées en ordre de certitude décroissante. Aucune, cependant, ne laisse de poser quelques problèmes, auxquels, peu ou prou, les aristotéîisants ont été sensibles. Le premier point que nous avons abordé dans notre thèse a été le dernier point que nous avons posé ci-dessus, à savoir, l'attitude d'Aristote à l'égard des opinions qui concernent les dieux traditionnels. Dans l'Ethique à Nicomaque et dans la Politique, Aristote ne se contente pas de dire à l'occasion "nous rendons aux dieux" des marques d'honneur (EN IV, 7, 1123bl8; VIII, 11, 1160b24), s'incluant visiblement dans le nombre de tous ceux qui agissent ainsi. La pratique est, pour lui, un impératif absolu: "faut-il honorer les dieux et chérir ses parents?" {Topiques I, 11, 105a5-7). La question, dit-il, ne se pose pas, car les dieux sont nos plus grands bienfaiteurs; ils sont, en effet, responsables de notre être, de notre nourriture, et, une fois que nous sommes grandis, de notre éducation (EN VIII, 14, 1162a4-7). Ce jugement explique bien l'instance avec laquelle le philosophe enjoint aux politiques de veiller au souci des dieux dans la Polis {Politique VI, 8, 1322bl8, sg.) par l'institution des fonctions sacerdotales {Politique VII 8, 1328bl 1-13), et la création d'un bien-fonds public de nature à procurer des revenus pour les liturgies qui concernent les dieux (Politique VII 10, 1330a11-13). Ce genre de déclaration heurte de front l'interprétation thélogique que l'on donne de Lambda. Et cela sur trois points. 1) d'abord, il y est question, invariablement, des dieux au pluriel et de façon indifférenciée. Pour quiconque a cru trouver, dans Lambda, une position monothéiste, l'incompatibilité est totale (Baudry, Tricot, Bousset). 2) deuxième difficulté: les dieux évoqués, gardiens de la Polis, semblent d'une proximité malaisément conciîiable avec l'éloignement des substances séparées que pose Lambda. 3) troisième difficulté, liée à la précédente: la supposition d'une providence divine, à tout le moins d'une bienfaisance divine, s'oppose diamétralement à l'interprétation théologique de Lambda. Ces difficultés ont suscité deux types de jugement. Le premier consiste à soutenir qu'au fond Aristote n'adhère pas aux convictions populaires qu'il évoque. Ce jugement repose, toutefois, sur un a priori qui fait décider à l'avance que, pour Aristote, la théologie populaire est un mensonge. On peut modifier et atténuer le jugement, et affirmer que la religion grecque se réduit à des "rites extérieurs" qui n'exigent pas la croyance. Defourny affirme: "La religion grecque est un prétexte à amusement". Cette affirmation n'est pas sans fondement. En effet, la religion grecque est une religion de la Cité, fondée sur le culte des dieux de la Polis, ou plus tard, sur le culte du roi ou de l'impereur. Elle est une expérience culturel plutôt que spirituel. Elle n'exige pas une conversion du bios, ou une ardente foi religieuse. Aristote, effectivement, pouvait luimême s'engager dans les rites traditionnels sans croire le moins du monde à tous les mythes relatifs aux dieux qui étaient censés les justifier. Mais ce n'est pas sur 3a foi des mythes ou par tradition qu'il exige les pratiques religieuses, c'est en vertu d'une conviction générale plus profonde et moins irrationnelle: la bienfaisance des dieux. D'autres spécialistes, par exemple Bodéus, ont une disposition plus "réaliste". Il y a deux thèses principales dans l'ouvrage de Bodéus Aristote et la théologie des vivants immortels (1992), dont l'une nous semble plus convaincante que l'autre. La première est que les références à la conception traditionnelle des dieux ne doivent pas être comprises dans le cadre d'une théologie scientifique ou philosophique qui confirmerait ou corrigerait la mythologie, mais qu'au contraire à certains endroits une analogie avec ces croyances peut aider à établir la connaissance d'un objet de la philosophie première ou seconde. La deuxième thèse est qu'Aristote croyait à l'existence des dieux tels que les présente la tradition, c'est-à-dire comme des vivants immortels composés d'ame et de corps, s'occupant avec bienveillance des affaires humaines. Nous voudrions commencer par émettre quelques doutes à ce sujet, avant d'examiner l'intérêt des analogies dans le domaine de la philosophie théorique. On a vu que c'est surtout dans les traités de la philosophie pratique qu'apparaissent les allusions à la piété et au culte des dieux. Cependant, dans tous les textes de la Politique qui concernent les magistratures religieuses et le service des dieux, on ne trouve rien de plus qu'un respect pour les pratiques rituelles en vigueur dans les cités: pas de profession de foi, mais une reconnaissance des cultes propres à chaque cité comme faisant partie de l'identité citoyenne. Le philosophe mentionne certaines croyances, mais il évite de s'engager personellement. En effet, on retrouve l'emploi du conditionnel, par exemple en Métaphysique A 2, 983a5-10, EN X 8, 1179a22-23. Un autre procédé qu'utilise Aristote pour signaler qu'il fait allusion à une opinion courante et non à un fait scientifique est de l'introduire par "nous pensons, nous croyons" (hègoumeihd), par exemple en Poétique 15, 1454b5-6, ou en Politique VII 14, 1332M6-21. D'autre part, Bodéus utilise, à notre avis à tort, un autre passage pour montrer la croyance d'Aristote en la providence divine. 11 s'agit de l'Etique à Nicomaque VIII 12, 1162a4-7. Il est bien clair que l'analogie entre les parents et les dieux porte seulement sur la relation à des êtres "bon et supérieur", tandis que le reste de la phrase concerne les seuls parents, en expliquant pourquoi ils sont bons et supérieurs par rapport à leurs enfants. Enfin nous pensons qu'il faut considérer comme décisif sur ce point le seul texte où Aristote se situe par rapport aux opinions religieuses, à savoir Lambda 8, 1074a38-bl4. Il résulte de ce passage que de tout ce qui est reconté mythiquement sur les dieux, la chose claire et à retenir est que les dieux sont les premières substances. L'utilité des croyances traditionnelles pour la philosophie théorique se trouve dans l'identification des substances premières avec des dieux. En dehors de ce socle permanent, tout ce qui a été ajouté dans les mythes ne doit pas être retenu ni considéré comme clair. Même dans la vie pratique, l'utilité de ces croyances n'apparait que dans la mesure où beaucoup d'hommes sont incapables de mener une conduite véritablement morale et ont besoin de la peur des dieux pour respecter les lois. Maintenant, la majeure partie de la démonstration de l'adhésion d'Aristote à ces croyances repose sur le parallélisme établi avec Platon. L'argumentation de Bodéus consiste surtout à montrer qu'en l'absence d'une déclaration explicite de désaccord, Aristore pouvait avoir hérité des conceptions de son maître. Or, il y a là, a notre avis, un problème méthodologique, car on ne peut estimer qu'un auteur adhère à tout ce qu'il ne réfute pas explicitement. Enfin, nous croyons qu'Aristote parle sérieusement lorsqu'il se référé aux dieux de la tradition; nous pensons qu'au fond il accepte la théologie populaire, mais que son attitude au regard de la tradition soit bien plus détaché par rapport à l'attitude et au ton de Platon. La théologie citoyenne fait partie de l'éducation d'Aristote et des Grecs du VIV siècle, c'est une conséquence de l'époque, c'est, pour ainsi dire, une prémisse, une condition nécessaire à penser, et personne, ni Platon, ni Aristote, a jamais cru pouvoir la mettre en discussion. Il est évident que les dieux existent; peu importe comment, il faut ils existent. Or, Platon accepte de la religion populaire aussi les mythes et les rites, car Platon vit dans un milieu , où la religion fait partie du contexte politique, mais surtout car Platon est très intéressé à la pratique de la politique. Pour Platon les philosophes doivent arriver à prendre le gouvernement de la Cité; pour Platon la philosophie est connaissance des raisons et des Idées souveraines, mais cette recherche n'a aucune utilité si le philosophe ne fait pas retour à la Polis, où encore sont ses citoyens, et il assume une nouvelle charge: le gouvernement de la Cité. Platon concilie les exigences de l'étude de la philosophie avec les devoirs de la politique. Aristote juge cette tentative excessive. Aristote est intéressé à l'étude, à la recherche, mais son intérêt pour la politique diminue. Il est un intellectuel, il n'est pas un architecte de la Polis. Il mené une bonne partie de son existence dans l'Ecole, et il partage une adhésion argumentée au principe divin, bien qu'il ne doute pas sur la présence des dieux. Enfin, nous ne pensons pas qu'Aristote ait jamais engagé un combat pour défendre la théologie populaire contre les critiques des athées, mais il parle sérieusement des dieux de la tradition, il se conforme aux cultes officiels, et il n'a pas besoin de montrer l'existence des dieux ni dans le domaine théorique, ni dans le domaine pratique, car, comme affirme Wilamowitz, pour les Grecs "die Goetter sind da". Aristote note quelque part que l'un des moyens dont usent les tyrans pour se mantenir au pouvoir est de feindre un zèle particulier à l'égard des dieux. Ils évitent ainsi les complots, dit-il, car leurs sujets redoutent que les dieux ne soient de leur coté (Politique V 11, 1314b38-l315a3). Nous pensons que personne, sans ridicule, ne prêterait au philosophe lui-même, lorsqu'il parle des dieux, le pragmatisme machiavélique qu'il constate chez le tyran. Un deuxième point de la thèse se propose de vérifier si De Caelo, De Motit Animalium ou Physique VII-VIII proposent des vues théologiques concurrentes par rapport à la théologie de Lambda. Encore une fois les études de Jaeger nous ont permis de poser le status quaestioms. Le prestige de la théologie de Lambda fut sérieusement entamé lorsque l'Aristoteles de Jaeger inaugura le mouvement des études génétistes. A cela deux raisons. Premièrement, Jaeger s'était efforcé de montrer que Lambda n'était pas le courounnement de tout le système aristotélicien, mais une étape très provisoire dans l'évolution de la pensée du philosophe. Deuxièrement, pour reconstituer les premières étapes de cette évolution, Jaeger avait attiré l'attention sur différents textes, conservés ou fragmentaires, volontiers négligés jusque là, qui paraissent contenir les éléments d'une théologie sensiblement différente de la théologie de Lambda et suggérer les hésitations du philosophe sur des doctrines que l'on croyait avoir été acquises fermement une fois pour toutes. Touchant le premier point, les études postérieures ont prétendu invalider la position de Jaeger en récusant le caractère purement platonicien et donc périmé de Lambda. Touchant le second, elles ont largement fait droit à ses requêtes, tachant de retracer les moments d'une évolution théologique chez notre philosophe. L'ambition à fixer les étapes qui conduisirent le philosophe à la théorie de Lambda, à partir d'une critique de l'ame auto-motrice exposée par le Platon des Lois, a privilégié ces textes: De Philosophiez, De Caelo, De Motn Animalmm, Physique VII-VIII. La question reste de savoir si l'on passe d'une théologie à une autre théologie, à savoir d'une théologie des dieux immanents au monde ou d'une théologie astrale et sidérale à une théologie de la réalité transcendante. Nous croyons que la question est de savoir si, pour le philosophe grec qui était Aristote, la nécessité de situer en dehors de la nature le principe ultime contribuait à résudre ou à mieux poser les interrogations relatives à l'existence ou à l'identité des dieux. L'examen de cette question engage évidemment l'interprétation de toute la tradition grecque pré-aristotelicienne au double point de vue de la religion et de la philosophie. On peut se limiter ici à indiquer qu'une réponse affirmative ne va pas du tout de soi, au contraire. Du point de vue religieux la réalité des dieux chez les Grecs n'était nullement liée, comme dans la tradition judéo-chrétienne à l'existence d'un principe ultra sensible créateur, dont dépend le monde et que la raison devrait prouver. Les Grecs avaient traditionnellement le sentiment de la présence des dieux dans la nature ("les dieux sont-là"); ils s'interrogeaient sur leur forme et leurs manifestations ou sur leur présence réelle en ceci ou celà. Les Grecs ne cherchaient pas de preuves de l'existence de Dieu comme au Moyen Age. Sur le terrain de la philosophie, il convient de remarquer que Parménide, qui inaugure la spéculation qu'on appelle rétrospectivement "métaphysique", se garde soigneusement d'appeler dieu l'être qu'il pose en absolu par delà le multiple changeant qu'atteint l'opinion. Et ce qu'il inaugure ainsi, c'est une attitude que son héritier Platon maintiendra rigoureusement. Les idées intelligibles en général, dont participent les sensibles constituant notre monde, et, en particulier, l'idée du Bien qui préside à leur ordre, sont les dernières choses à mériter le nom de dieux. Ces attitudes paraissent enseigner l'inverse de ce qu'on a coutume de penser, à savoir que la pensée théologique et la pensée métaphysique, dans la tradition grecque, ne se rencontrent pas spontanément. La vraie question qui se pose, n'est peut-être pas de savoir si les textes de Platon et d'Aristote, qui plaident pour la réalité d'un monde métaphysique ont été conçus par eux comme une théologie philosophique, mais celle de savoir quand et pourquoi la lecture qu'on en a faite s'efforça d'en tirer une théologie philosophique en bonne et due forme. Ensuite nous prenons en considération le problème de la science dite théologique. L'exégèse traditionnelle d'Aristote pense trouver un appui solide dans le fait que la Métaphysique, au moins une fois, parle d'une science "théologique"à propos de la philosophie première (E 1, 1026al8-23. Le parallèle K 7, 1064a33 ne semble pas vraiment constituer une attestation supplémentaire. S'il n'est pas inauthentique K 7 apparait comme un pur doublet de E 1). L'appellation est tout à fait occasionnelle et notifiée sommairement, comme affirme During: "Der Name war ein zufalliger Einfall, parenthetisch motiviert, und hat keine Spur in seinen Schriften (i.e. des Aristoteles) [...] hinterlasse". Mais elle existe et elle a été d'un grand poids pour la lecture du philosophe. Quelquefois la science théologique et la théologie c'est, pour nous, la même chose et l'on ne vérifie même pas si dans la langue d'Aristote, ) .(VEDI RIASSUNTO CARTACEO) peuvent être synonymes et s'il n'y a pas, au moins, un abus de langage à projeter chez le philosophe notre assimilation, avec ce qu'elle implique. Pourtant, quand Aristote fait état d'une IDEM (Météorologiques II 1, 353a34-35), des IDEM ou de ceux qui IDEM (Métaphysique A 3, 983b28-32; B 4, 1000a9-11; A 9, 1071b26-28; 10, 1075b24-27; N 4, 1091a33), il vise le discours tenu sur les dieux traditionnels par les poètes. Il n'est pas question, là, de science, c'est tout le contraire. Un grand mérite de l'ouvrage de Bodéus est d'avoir montré clairement que la théologie, tant chez Platon que chez Aristote, n'est pas une science, et qu'il n'existe pas de science qui aurait pour objet les dieux de la religion traditionnelle; chez Aristote, la science ne peut connaître qu'à partir de l'expérience sensible, de sorte que du dieu il ne peut y avoir qu'une connaissance vraisemblable, par une critique dialectique des opinions. Après avoir rappelé que les composés en -logia ne désignent jamais une science mais un simple discours, et sont souvent péjoratifs, nous parcourons les quelques passages du Corpus où il est question de théologiens, d'où il ressort qu'il s'agit des poètes ou des anciens parlant des dieux de la mythologie, qui rejoignent parfois les physiciens sur certaines éléments doctrinaux. Il vaut la peine de compléter cette clarification par une explication de l'adjectif "théologiké" qui apparaît en Epsilon 1, pour comprendre comment il peut être attribué à la philosophie première, malgré ce qu'on vient de dire de l'usage limité et péjoratif de cette racine. L'objet de la philosophie première est défini plusieurs fois dans le corpus. Le plus souvent, c'est Veidos, étudié pour lui-même ou en tant que séparé: ainsi, en Physique I 9, 192a34-b2: "A propos du principe selon Veidos, s'il est un ou multiple, et quel ou quels il est, c'est la tache de la philosophie première de le déterminer avec exactitude, aussi remettons-le à cette occasion"; en Physique II 2, 194b9-15: "mais comment se comporte le séparable et quel il est, c'est la tache de la philosophie première de le déterminer"; de même, en De Anima I 1, 403b9-16, le philosophe premier étudie les affections séparées de la matière. D'autres références renvoient plus précisément à l'objet de Métaphysique Lambda: la philosophie première s'occupe du "principe immobile" du mouvement (De Generatione et Corruptione, I 3, 318a5), et le De Motu Animalium renvoie à des "leçons sur la philosophie première" où il a été déterminé de quelle manière est mu le premier mu et meut le premier moteur (De Motu Anim., 10, 703b6-9). La philosophie première n'étudie donc pas seulement le premier moteur mais toutes les formes séparées de la matière, de sorte qu'une partie de l'étude de Veidos en Métaphysique Z est déjà de la philosophie première. La distinction qu'établit à son tour Métaphysique E entre les sciences théoriques est conforme à ces dernières occurrences, puisqu'on lit: "Car la physique connaît des choses non séparables mais non immobiles, la mathématique des choses immobiles mais probablement non séparables et comme dans la matière, et la première, des choses à la fois séparables et immobiles" (Métaphysique E 1, 1026a13-16). Mais immédiatement après, les objets de la philosophie première sont limités aux moteurs immobiles des astres: "les causes des choses divines visibles (aitia fois phanerois ton theion) (1026a18). Et c'est à cause de cette restriction qu'elle est appelée "théologique", cet adjectif étant d'ailleurs un happax dans le corpus (1026al9), car "il n'est pas obscur que, si le divin existe quelque part, il existe dans cette sorte de nature, et la science la plus honorable doit concerner le genre le plus honorable. Les sciences théorétiques sont donc préférables aux autres sciences, et celle-ci aux autres sciences théorétiques". A ce propos, nous ne pensons pas qu'on puisse dire avec Bodéus que les premiers moteurs ne sont divins que par accident, c'est-à-dire par une extension métaphorique du divin depuis les étants célestes étudiés par la philosophie seconde, et non en vertu de leur séparation et de leur immuabilité. En effet, si le concept de divinité repose sur celui d'éternité, ce qui nous parait clair, et si donc la physique est déjà "théologique" par l'éternité de certains de ses objets, pour la même raison, les moteurs immobiles sont divins par essence et non par accident ou par métaphore ("principio del IDEM" dans notre thèse). D'ailleurs, le seul passage du De Caelo qui évoque le moteur est suffisamment explicite: "Quant au moteur, il est logique d'admettre qu'il possède ces qualités à un titre bien supérieur encore, car pour mouvoir un être premier, il faut un être premier, pour mouvoir un être simple, il faut un être simple, et pour mouvoir un être incorruttible et ingénérable, il faut un être incorruttible et ingénérable. Donc, puisque le mu ne change pas, bien qu'il soit un corps, le moteur, qui est incorporel, ne peut non plus changer." (II 6, 288bl-6; trad. Moraux). Ce raisonnement ne vise pas à attribuer au moteur une propriété accidentelle, mais à lui attribuer a fortiori une propriété essentielle, en tant qu'il est principe du mu, et ce procédé illustre d'ailleurs une des possibilités logiques de contourner le manque de données empiriques à propos du principe immobile. Bref, la philosophie première n'est pas théologie. La théologie est le discours musikos tenu par les poètes sur les dieux. La philosophie première, comme disait Reale dans les années '60, ne peut pas être réduite à théologie. Elle est "aitiologia, ontologia, ousiologia et teoIogia". La philosophie première est science théologique puisque elle est science des causes et des principes {Métaphysique A 2, 983a89); dieu est un principe, et donc la philosophie première est théologie, car les objets de la philosophie première sont divins et cette science est celle que le dieu détient (Métaphysique A 2, 983a5-10). La substance séparée est divine en raison de la causalité qu'elle exerce sur les êtres visibles tenus pour divins. Mais la chose appelée divine n'est ni la seule, ni fondamentalement la première, bien qu'elle soit ontologiquement supérieure à celles qu'on appelle divines. Aristote s'efforce précisément d'établir qu'il y a une science spéculative supérieure à la physique. Et ce qu'il a en vue, c'est non pas de justifier une théologie scientifique, parlant des véritables dieux, au dépens de la thélogie des poètes qui parleraient des faux dieux, mais de justifier la science de l'immuable séparé au-dessus de la science des sensibles mouvants et non séparés. Or, l'argument utilisé, qui fait intervenir la notion de "divin" est un argument a fortiori. Il consiste à dire, en bref, que, dès l'instant où l'on reconnaît une certaine dignité à la physique qui étudie les réalités visibles, à plus forte raison ("argomento del IDEM") doit-on admettre la dignité de la science qui étudie les causes de ces réalités-là. Le philosophe n'entend pas faire comprendre que dieu, ou les véritables dieux, sont ici, dans ces réalités immuables, plutôt que là, dans les réalités physiques. Son propos est d'établir la dignité supérieure d'une science en vertu de son objet, en montrant que cet objet, mieux que celui de la physique, mérite d'être regardé comme "divin". Comment peut-il étendre la qualité de "divin" des réalités physiques aux réalités séparées et prétendre qu'elle est mieux appropriée à celles-ci? Il le donne à comprendre clairement en indiquant que ces causes premières sourtout sont "éternelles" (Métaphysique E 1, 1026al7). A fortiori le sont-elles, si leurs effets célestes le sont. C'est donc la notion d'éternité qui, associée à celle du divin, justifie le philosophe dans sa prétention. A ce propos il y a aussi les opinions traditionnelles, qui sont utilisées, par Aristote, pour confirmer les résultats de l'argumentation et comme analogies pour pallier une faiblesse expérimentale. Un élément emprunté à la religion traditionnelle est que le ciel est immortel et donc divin. Cette croyance d'ailleurs ne doit pas être reprise telle quelle mais convertie en un langage scientifique, car immortel n'est pas exactement synonyme d'immuable et d'éternel, et appuyée par le raisonnement scientifique, comme le montre le passage suivant: "Les anciens ont assigné aux dieux le ciel et le lieu d'en haut, parce qu'ils le consodéraient comme le seule immortel. Le présent exposé atteste qu'il est incorruptible et inengendré, qu'il est, en outre, à l'abri de tous les ennuis liés à la condition mortelle et qu'en plus de tout cela, il n'est pas soumis à un effort pénible, du fait qu'il n'a pas besoin de se voir adjoindre une nécessité contraignante pour le retenir et l'empêcher d'exécuter un mouvement différent, qui serait le sien par nature. En effet, tout être qui subit une pareille contrainte doit peiner, et il peinera d'autant plus qu'il sera éternel; jamais il nejouira de l'état de suprême perfection" (II 1, 284al2-18; trad. Moraux). En outre, l'opinion ancienne que le mouvement du ciel est immuable n'est pas seulement issue de la conception des dieux, mais elle se fonde sur les observations astronomiques et se manifeste dans la formation du langage (cf, l'étimologie de aithèr et de aion). Le langage a autorité, car il reflète une pensée universelle; ainsi les opinions des anciens sont communément admises et largement partagées, et elles n'ont pas changé au cours des siècles. Le raisonnement suppose que la physique d'abord soit dite, ou puisse être dite, "théologique" du fait qu'elle porte, du moins en partie, sur les réalités éternelles. Partant de là, le philosophe a conclu que si la physique, vu le caractère éternel de son objet, peut être regardée comme une science théologique, la science première peut l'être aussi, à plus forte raison, pour le même motif. La physique, enfin, pouvait être tenue pour théologique à cause de la ressamblance ou l'analogie des objets célestes, dont s'occupe la science en question, avec les dieux ouraniens, dont parlent les poètes. La physique des réalités célestes est comme une théologie au sens propre. Avec l'argument du IDEM notre propos est de montrer que le substantif iheos et l'adjectif theion n'indiquent pas, à proprement dire, des substances. Theos et theion sont apposition et attribut utiles à distinguer un être, ou un groupe des êtres, ou un être suprême dans une échelle bien ordonnée des êtres et des valeurs. Pour Aristote, dieu n'est pas l'être suprême d'une recherche théologique. Le mot est utile à marquer une différence, une supériorité. Du point de vue religieux, chez les Grecs, la réalité des dieux n'était nullement liée à l'existence d'un principe ultrasensible créateur, dont dépend le monde crée et que la raison devrait prouver, comme dans la tradition judéo-chrétienne. La démonstration de l'existence de Dieu, dans la pensée du Moyen-Age part, du point de vue théologique, du consentement d'une inaccessibilité de la divinité, qui ne se manifeste pas. Les hommes peuvent donc douter de son existence et ils ont bien le droit à chercher les preuves sur l'existence de dieu. D'un point de vue philosophique la démonstration part de l'attribution d'une contingence totale à tout ce qui diffère de Dieu, qui est le seul être nécessaire. Or, il est à peine besoin de rappeler que Aristote n'a été jamais confronté à une pensée théologique comme telle. Il avait, comme tous les Grecs, le sentiment de la présence des dieux dans la nature, et il n'avait aucune bonne raison pour douter de l'existence des dieux. La question, pour Aristote, n'est pas celle de savoir si dieu, ou les dieux, existe, mais celle de s'interroger sur la forme propre aux dieux, sur leurs manifestations, ou sur leur présence réelle en ceci ou cela. Puisque il n'y a pas la forme (seule et unique) de dieu, ni la manifestation (seule et unique) de dieu, ni Je concept pur et a priori de dieu, il est bien possible que theos ait, pour Aristote, une fonction prédicative. Toutefois nous pensons que Platon dans le livre X des Lois a donné une démonstration de l'existence des dieux, et cette démonstration est compatible avec la doctrine des Analytiques d'Aristote. En effet, de même que Platon veut montrer que les dieux reconnus sont réellement des dieux, par généralisation à partir de la démonstration d'un exemplaire représentatif: Zeus, Hélios, ainsi, en Analytiques Post. II 2, 89b38 Aristote établit que la démonstration de l'existence doit se faire par un moyen terme vérifiant l'existence d'au moins un exemplaire, en l'occurrence par la proposition particulière: "ceci est-il un dieu?". Cette question est conforme à la démarche prônée en 89b34, de chercher le ti esti, quand on connaît le hoti, de sort qu'elle supposerait déjà l'existence d'entités identifiées comme telles. Cependant, il faut distinguer deux manières de connaître le hoti qui corrispondent d'ailleurs aux deux significations de ta phainomena: les expériences sensibles et les opinions courantes. Dans le premier cas, le plus fréquent, on observe un objet donné par l'expérience sensible et on cherche sa nature intelligible; ensuite, quand on a trouvé une essence qui n'entraine pas de contradictions logiques ou physiques, on peut confirmer l'existence du phénomène observé en tant que correspondant bien à cette essence. C'est le cas pour la lune, le soleil, mais aussi, dans la Physique, pour le temps, le mouvement, e a contrario, pour le vide et l'infini, l'impossibilité de leur trouver une essence sans contradictions va en faire rejeter l'existence. Dans d'autres cas, le hoti est seulement un produit de l'opinion, comme le bouc-cerf ou le sphynx, le centaure ou le dieu. Or, le bouc-cerf et le sphynx sont les existences favoris d'Aristote pour parler des non-étants, ces fictions qui n'ont qu'une définition "nominale" et pas de véritable essence {Analyt. et De Interpretationë). Mais nous avons l'impression que pour le dieu la chose soit différente. Les interrogations fondamentales consistent à demander, à propos d'une substance, si elle est (existence) et l'autre à demander, sachant qu'elle est, ce qu'elle est (essence). Or, Aristote illustre ces deux interrogations pas des exemples. Dans le premier cas "s'il est ou non un centaure ou un dieu. J'entends, précise le philosophe, s'il est ou non simplement et pas s'il est blanc ou noir". Dans le deuxième cas "Qu'est ce donc qu'un dieu ou qu'est-ce qu'un homme?" (A.Post. II1, 89b32-35). Le choix des exemples est probablement significatif. La première question porte, en effet, sur un genre de substance dont l'existence est douteuse (le centaure ou le dieu). La seconde question porte, quant à elle, sur un genre de substance dont on sait qu'elle est. Dans ces conditions, la substitution du terme "homme" au terme "centaure", dans l'énoncé de l'essence, semble impliquer que, pour Aristote, on ne puisse savoir s'il est ou non un centaure et peut-être que l'on puisse savoir qu'il n'est pas. En revanche, Aristote parait admettre que l'on puisse savoir qu'il est un dieu, comme l'on peut savoir qu'il est un homme, et que, sachant cela, l'on s'interroge ensuite sur l'essence de dieu, comme l'on s'interroge sur l'essence de l'homme. Le genre de connaissance, qui met un terme à la recherche suscitée par la question de savoir s'il est ou non un centaure ou un dieu, est la découverte d'un "moyen terme" de nature causale (A.Post, II 2, 89b38). La question de l'existence des dieux, chez Aristote comme chez Platon, ne revient pas exactement comme pour nous, à se demander s'il existe quelque chose qu'on puisse appeler dieu, et à identifier dans le réel ce qui peut correspondre à l'idée de dieu. Elle revient à se demander si le genre de chose qu'on appelle dieu est dieu et à vérifier si ce qu'on identifie comme dieu mérite ce prédicat. Dès lors, quand Aristote énonce la question de savoir "s'il est ou non un dieu", le sens de cette question n'est pas de savoir s'il est possible qu'un dieu soit autre chose qu'un mot ou une idée, mais s'il est possible qu'un dieu parmi ceux ou du genre de ceux que nomme la tradition le soit réellement. Et voilà pourquoi, en définitive, la question de l'existence de dieu d'abord existentielle, se trouve naturellement traitée comme une question prédicative, car elle vise un objet précis dont on se demande s'il est un dieu. Même le Moteur Immobile est dieu puisque on lui prédique l'apposition "dieu". En effet, le Moteur Immobile est un dieu car il est un vivant, et il est vivant car il est pensée. L'argumentation infère la divinité du Moteur Immobile à partir de sa pensée et non le contraire. Le point de départ de la démonstration est le plaisir dont il jouit lorsque il pense. Or, penser est une forme de vie et une forme de plaisir, et donc penser est une forme de vie excellente, heureuse et éternelle. Le Moteur Immobile a une vie éternelle et il est heureux, donc il est dieu. En effet les hommes pensent que dieu est un être excellent et éternel. Métaphysique Lambda n'est pas utile à montrer que, pour Aristote , dieu existe, ou un dieu existe, ou le dieu suprême existe. Pour les Grecs, se poser cette question est une absurdité, car il est évident que les dieux existent. D'un point de vue théologique la contribution qui donne Lambda est de montrer que parmi les causes, il y a un principe immobile, immuable, qui est pensée, et qu'on peut appeler dieu. La distinction aristotélicienne entre la substance première et la substance seconde (qui se dit de la première) aide à préciser ce dont il s'agit. Le philosophe n'envisage pas si Dieu, substance unique du monothéisme, peut correspondre à une réalité, mais si le dieu, substance seconde, peut légitimement se dire des substances premières qu'on appelle ainsi. Enfin, ce qui rend probable qu'un dieu soit c'est la possibilité de trouver le moyen terme qui justifierait des individus exemplaires à être appelés dieux. Précisément, il y a nombreux moyens termes qui justifient des individus à être appelés dieux et il faut avoir plus qu'un seul terme moyen, afin d'appeler un individu "dieu" au sens propre. La découverte du moyen terme, permettant de dire qu'un dieu est, ne suppose pas, selon Aristote, la connaissance de ce qu'est le dieu. Aristote dit, en effet, que c'est après avoir reconnu qu'il est qu'on cherche à savoir ce qu'il est (A.Post., II1, 89b34). Savoir reconnaître qu'un dieu est, sans savoir ce qu'est un dieu, semble difficile. Et Aristote sans doute admet qu'il faut savoir ceci de quelque manière pour savoir cela: il faut connaître quelque attribut essentiel qui, sans révéler l'essence de dieu, révèle du moins le fait qu'il est une substance d'un certain genre. Ainsi, à propos de l'homme, dans A. Post, II 8, 93a23-24. Mais la connaissance précise de ce pourquoi un dieu est ce qu'il est essentiellement n'est pas requise. La substance des dieux, irréductible à toute autre substance, ne se laisse pas déterminer de manière a priori. Pour Aristote, elle ne peut se concevoir que dialectiquement. Conservée par le mythe ou dans les maximes ancestrales, la tradition seule donne à connaître la nature de dieu. Aristote se réfère à cette tradition ancienne qui parle des dieux (De Caelo II 1, 284al-2; Métaphysique XII 8, 1074bl-2) et il souligne à l'occasion qu'elle reflète une pensée universelle: "tout le monde affirme que ..." {Politique 1, 2, 1252b24; cf. EN X8, 1178bl8; De Caelo I 3, 270b7-8; De Philosophiez fr. 6 Ross). Les dieux font l'objet d'opinions couramment reçues que le philosophe fait valoir pour cette raison qu'elle sont communément admises (Métaphysique A 2, 983a8; cf. EN X 9, 1179a25; Poétique 15, 1454b5-6). Il s'agit de convictions largement partagées (IDEM), et leur caractère opinatif importe moins que le consensus dont elles font l'objet et qui leur confère une autorité. C'est très important ce que les hommes affirment sur les dieux, car, pour Aristote, le langage a un accès direct à la réalité. Le philosophe nourrit, pour ainsi dire, un optimisme gnoseologique par rapport à la nature humaine. Il semble que les hommes aient une aptitude innée à connaître le vrai, bien qu'ils ne le connaissent pas dans une façon claire. Et la preuve évident de cela est le fait que les hommes utilisent dans une façon correcte le langage. Enfin nous avons examiné les passages théologiques du corpus et du livre III du De Philosophia dans le but de vérifier les thèses proposées et en particulier: 1) nous ne croyons pas qu'Aristote ait jamais engagé un combat pour défendre les croyances de la conception théologique traditionnelle; mais nous ne pensons pas non plus que le philosophe les ignorait, ou les reniait. 2) "être divinité", "être divin", pour Aristote, est caractéristique d'un groupe d'êtres. d'un genre d'êtres, ou de plusieurs genres d'êtres. Cette caractéristique n'est pas propre à un seul individu. Bref, "dieu" est une apposition qui marque une différence; "divin" est un attribut essentiel, mais theos n'est pas une substance individuelle, c'est-à-dire, il n'y a pas un dieu qui n'est que dieu. Autrement dit, theos désigne un dieu quelconque parmi d'autres, ou celui-là précisément que le contexte évoque (ainsi dans EE I 1, 1214al où il désigne probablement Léto). Mais le plus souvent, le mot vise le dieu en général, c'est à dire collectivement ou génériquement, les individus qui se laissent ramener à la même idée commune, ainsi que l'explique Métaphysique Delta 26, 1023b30-32: le dieu, comme l'homme ou le cheval, est une espèce de vivants. Theos est un substantif comme anthropos or zoon. On peut prédiquer ce substantif aussi aux êtres qui ne sont pas les dieux de la tradition, et cela ne donne pas lieu à une contradiction, ni crée une nouvelle théologie. ' Le mot "dieu" indique, pour Aristote, une "unité de genre, il n'indique pas une unité numérique. Comme l'astrologie étudie les astres, qui sont nombreux, ainsi la théologie étudie les dieux, qui sont nombreux. Aristote a bien le droit à avoir une conception polythéiste de la divinité. Cela ne donne pas lieu à désordre, puisqu'il y a cependant une certaine hiérarchie des dieux. En effet où il y a multiplicité, il y a ordre, et où il y a ordre il y a hiérarchie. Enfin nous avons analisé certains passages du corpus aristotélicien et du livre III du De Philosophia qui confirment nos ypothèses, et qui se donnent réciproquement confirmation. it_IT
dc.format.medium Tesi cartacea it_IT
dc.language.iso it it_IT
dc.publisher Università Ca' Foscari Venezia it_IT
dc.rights © Barbara Botter, 2003 it_IT
dc.title Tutto è Dio o divino nel troppo divino Aristotele: la concezione teologica aristotelica nei passi tratti dal Corpus e nel libro terzo del De philosophia it_IT
dc.type Doctoral Thesis it_IT
dc.degree.name Filosofia it_IT
dc.degree.level Dottorato di ricerca it_IT
dc.degree.grantor Facoltà di Lettere e filosofia it_IT
dc.description.academicyear 2001/2002 it_IT
dc.description.cycle 14 it_IT
dc.degree.coordinator Valent, Italo it_IT
dc.location.shelfmark D000203 it_IT
dc.location Venezia, Archivio Università Ca' Foscari, Tesi Dottorato it_IT
dc.rights.accessrights Accesso locale (tesi cartacea) it_IT
dc.format.pagenumber 2 v. it_IT
dc.description.note Co-tutorato con Université Charles De Gaulle Lille III it_IT


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