Abstract:
L’interruzione volontaria di gravidanza è da sempre dipinta come un’esperienza estremamente dolorosa e traumatica per la persona che decide di affrontarla. Ad essa è collegato, nell’immaginario collettivo, il fallimento nell’esplicazione del ruolo “naturale” di madre da cui derivano sentimenti di rimorso, sofferenza, stress e perdita di autostima. Ciononostante, le donne abortiscono comunque. Studi scientifici, infatti, dimostrano che conseguenze psicologiche quali stress, depressione e pentimento, raramente insorgono nelle donne che ricorrono alla pratica.
Le maggiori conseguenze psicologiche negative insorgono piuttosto, come gli studi dimostrano, quando il diritto all’aborto viene negato.
Proprio a causa dello stereotipo legato alla pratica abortiva e alle ideologie morali, etiche e religiose che vedono prevalere negli ordinamenti dei singoli Stati il diritto alla vita del feto rispetto al diritto di abortire della donna, a livello internazionale non esiste un diritto vero e proprio all’aborto all’interno dei maggiori strumenti a protezione dei diritti umani. Nonostante vi sia un ampio riconoscimento dei rischi di morbilità e mortalità legati alle pratiche di aborto illegale e quindi il riconoscimento della necessità di decriminalizzazione dell’aborto, l’ordinamento giuridico internazionale non delinea un vero e proprio diritto all’interruzione volontaria di gravidanza. L’autonomia decisionale riservata ai singoli Stati non consente una compiuta identificazione del diritto all’aborto a livello internazionale. Per sopperire alla mancanza di una disciplina comune sulla materia, le istituzioni internazionali sono costrette a fare riferimento ad altri diritti umani per la tutela di situazioni legate a violazioni dei diritti riproduttivi.
La disciplina della materia a livello nazionale, infatti, è trattata in modi talvolta solo formalmente opposti: approcci radicali che prevedono la totale criminalizzazione dell’aborto e approcci più liberali che, nonostante il riconoscimento del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, frappongono una serie di ostacoli all’accesso ai servizi sanitari collegati che di fatto ne rendono difficoltoso se non impossibile l’esercizio.
Nella pratica si delinea un contesto estremamente stigmatizzante dell’aborto in sé e della donna che vi ricorre, creando le basi per un sistema ineguale e discriminatorio che mina l’autonomia riproduttiva e il diritto di autodeterminazione delle donne.
Sfatati i falsi miti sulle conseguenze delle pratiche abortive, quali la sindrome post-abortiva o l’aborto come causa di cancro al seno, è invece proprio la negazione al diritto di autonomia decisionale sul proprio corpo, sulla propria salute sessuale e riproduttiva, a determinare maggiori conseguenze negative a livello psicologico.