Abstract:
In Australia, dall’avvento della Federazione fino agli anni 70 del Novecento, le disposizioni della tristemente nota politica per ‘un' Australia più bianca e britannica’ promettevano di controllare i flussi migratori dall’estero limitando l’ingresso di certi tipi di migranti, in particolare quelli di origine Asiatica. Nel 1973, grazie al governo Whitlam, il termine ‘multiculturalismo’ fa il proprio esordio sulla scena politica nazionale, smantellando gradualmente la precedente politica migratoria razzista. Negli stessi anni, il governo sviluppa la prima politica d’asilo come risposta all’esodo di rifugiati indocinesi che cominciano a raggiungere le coste australiane a bordo di imbarcazioni di fortuna con lo scopo di fuggire da un Vietnam sconvolto dalla guerra. Ciononostante, a partire dagli anni 90, l’istituzionalizzazione del multiculturalismo subisce una battuta d’arresto. Sebbene l’Australia dal 1954 sia uno dei paesi firmatari della Convenzione di Ginevra sui Rifugiati, diversi governi nazionali, da Fraser a Morrison, hanno messo a punto delle politiche nei confronti dei richiedenti asilo ‘irregolari’ in arrivo via mare sempre più draconiane, i cui elementi fondamentali sono la detenzione obbligatoria e la gestione extraterritoriale delle richieste d’asilo.
L’elaborato si propone di analizzare la cosiddetta ‘Soluzione Pacifico’ e la più recente ‘Operazione Confini Sovrani’ con un particolare focus sulle condizioni dei centri di detenzione offshore in Nauru e Papa Nuova Guinea, ‘isole della disperazione’ dove si consumano sistematiche violazioni di diritti umani. È riuscita l’Australia a trasferire la propria responsabilità internazionale verso paesi terzi?