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La tesi raccoglie i risultati delle indagini sul patrimonio artistico privato pesarese, andato quasi completamente disperso tra XIX e XX secolo. Il caso di Pesaro appare significativo in una prospettiva di ricerca non locale in quanto città che, per la propria dislocazione geografica e per la presenza del porto, si è trovata nei secoli passati ad avere un ruolo rilevante, anche per tutto l’entroterra delle Marche settentrionali, in ambito commerciale, economico e culturale. Le ricchezze mercantili hanno favorito un certo tipo di collezionismo che ha riguardato diverse classi sociali e non solo le principali famiglie aristocratiche. Pesaro, dopo la devoluzione del ducato di Urbino allo stato della Chiesa del 1631, ha vissuto un periodo che è sempre stato letto sotto la lente della “decadenza” economica e culturale; ma gli studi più recenti, e questa mia ricerca, dimostrano invece una situazione molto più complessa, soprattutto per quanto riguarda la circolazione di opere d’arte in città. Dalla ricerca effettuata risultano scambi fecondi, e mai interrotti, tra la capitale dello Stato pontificio e Pesaro, con opere che si sono mosse nei secoli tra le due città in due direzioni, sia in entrata che in uscita. Pesaro vanta una salda tradizione collezionistica che affonda le radici negli ambienti legati ai Della Rovere e, ancora prima, alla raffinata corte sforzesca. Ogni famiglia appartenente alla nobiltà aveva una propria raccolta e una galleria che arricchivano i sontuosi palazzi del centro. La presenza di immagini è testimoniata però anche nelle abitazioni più modeste e non aristocratiche. La storiografia artistica locale non è ricca di notizie sulle collezioni private, per cui, sono stati indispensabili i documenti inediti ricavati dalle indagini archivistiche condotte presso l’Archivio di Stato di Pesaro, l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, l’Archivio di Stato di Firenze, il fondo antico della Biblioteca Oliveriana di Pesaro. Presso l’Archivio di Stato di Pesaro, fondamentali per testare la situazione generale in epoca preunitaria della diffusione di immagini nelle abitazioni private anche più modeste, sono gli inventari post-mortem. Negli elenchi dettagliati dei beni molto spesso compaiono dipinti, nella maggior parte dei casi di carattere religioso e quindi legati alla sfera della devozione privata. I quadri sono registrati come elementi comuni dell’arredo di interni e, in questo caso, più spesso sono descritti dipinti a soggetto profano. A volte le immagini citate sono materiale di lavoro, se così può essere definito, appartenente a artisti e artigiani. Quasi sempre si hanno indicazioni generiche: il soggetto e, più raramente, il supporto e le dimensioni. Le attribuzioni agli autori sono quasi inesistenti, mentre queste diventano preponderanti negli inventari relativi alle raccolte più corpose e strutturate delle famiglie nobili.In controparte a questa attività di reperimento e raccolta di dipinti si rileva invece una sorta di emorragia irrefrenabile nella alienazione di gran parte delle collezioni private. Tra i vari materiali archivistici indagati fondamentali si sono dimostrati essere i fitti epistolari tra venditori e acquirenti, con il tramite tra questi dell’esperto e del mercante, figure che spesso coincidono, e i rapporti dei primi con il Ministero di riferimento. Tre sono i casi presi in esame quali elementi emblematici dei tanti episodi relativi alla dispersione del patrimonio privato: quello della collezione di dipinti e ceramiche del cavaliere Domenico Mazza, appositamente aggregata e rivenduta, allo scopo di finanziare un istituto di cura per poveri e invalidi; quello della vendita del polittico di Antonio Vivarini oggi ai Musei Vaticani ma fino a metà Ottocento nella chiesa di Sant’Antonio di Pesaro; quello della tavola attribuita a Raffaello raffigurante la Madonna della quercia, documentata a Pesaro fino ai primi del Novecento e oggi dispersa. |
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