Abstract:
L'indagine consiste in un tentativo d'analisi di antropologia filosofica sul tema della dannazione eterna e delle sue condizioni di intelligibilità, prendendo le mosse innanzitutto dal "più illustre degli averni letterari" (l'espressione è di Borges), vale a dire da quello descritto da Dante nella Commedia. L'impostazione generale del lavoro è ispirata dalle note, tanto brevi quanto suggestive, che a tal proposito von Balthasar fornisce, laddove egli analizza l'Inferno dantesco: in sintesi, ciò che ne emerge è che il poeta, proprio per poter attraversare il luogo (o meglio, lo stato) d'eterna dannazione - e per poter, in qualche modo, comunicare con coloro che a tale destino sono condannati -, abbia dovuto inevitabilmente allentare i connotati propriamente "infernali" di tale stato. In altri termini, il pellegrino Dante, in actu exercito, avrebbe a che fare propriamente non con dannati, bensì con esseri umani i cui tratti sembrano dare testimonianza, all'opposto, del loro permanere trascendentalmente "aperti" al bonum in quanto tale. Ciò emerge in maniera del tutto esplicita una volta che si prendano in considerazione quali siano i connotati propri dei dannati secondo i maggiori magistri della Grande Scolastica, da Bonaventura a Duns Scoto, da Alberto Magno a Tommaso (i cui testi teologici erano quelli a disposizione di Dante): un'obstinatio in peccato finalmente perfecta, invidia altrettanto perfetta anche verso i propri congiunti, odio assoluto verso il prossimo e verso Dio, il venire meno di ogni relazione stabilita precedentemente in via e di ogni nozione conoscitiva che non fosse propedeutica ad un maggior tormento, ecc.
Tutti tratti, questi, continuamente smentiti dal modo in cui si presentano molti dei dannati dell'Inferno: da Francesca (la cui relazione con Paolo sopravvive alla stessa perdizione) che esclama "se fosse amico il re de l'universo,/ noi pregheremmo lui de la tua pace,/ poi ch'hai pietà del nostro mal perverso" (Inf. V, vv. 91-93) - espressioni che fanno trapelare non l'odio per Dio (di cui, anzi, riconosciuto come tale, si solleciterebbe l'amicizia) né quello per gli altri (per alcuni dei quali si vorrebbe pregare) - , a Cavalcante Calvalcanti, che sprofonda in un'ulteriore disperazione una volta appreso il destino infausto del figlio Guido; da Brunetto Latini, al cui volto abbrustolito Dante indirizza una carezza ("e chinando la mano alla sua faccia,/ rispuosi: 'Siete voi qui, ser Brunetto?'" Inf. XV, vv. 29-30), nonostante il suo peccato sia punito in un cerchio infernale più inabissato rispetto a quello d'un Capaneo, sino ad Ulisse, il quale - a rigore - non dovrebbe neppure riconoscere il proprio "folle volo" (Inf. XXVI, v. 125) come tale, poiché nel suo isolamento totale di dannato, nella sua definitivamente astratta presa sulla realtà, non potrebbe avere accesso al concetto concreto che - solo - mostra la follia come follia.
Quest'ordine di considerazioni, seppur malamente sintetizzate, conduce ad una serie di riflessioni ulteriori, non ultima l'interrogazione a proposito non solo dell'immaginabilità della dannazione (il riuscire a farsi un'idea concreta dello stato in cui versano i reprobi), ma anche dell'effettiva concepibilità di essa, proprio sfruttando il tentativo dantesco di tradurre le tesi teologiche scolastiche in situazione esistenziale.