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Fragonard è completamente dipendente dall’insegnamento dei grandi maestri, ma se ne distingue con una modernità assoluta, con una cosciente spontaneità. Ne Les Baigneuses, la morbidezza dei corpi, la rotondità dei glutei, le pieghe della pelle, si fondono con le curve spontanee dei fogliami, le onde dense del ruscello, i fiori frondosi, rosei e carnosi che, umidi e colmi di vitalità, sono i veri genitori delle fanciulle, che da essi emergono, traggono forza e vita. L’atmosfera è quella calda e densa – colta dalla maniera fiamminga – dove si mescolano gli sguardi abbandonati al piacere delle otto ninfe, che scivolano sensuali tra l’ambra e l’oro in uno spazio fluido e dinamico fatto di un’aria impalpabile e leggiadra. Eppure questa freschezza, questa velocità nel comporre con tocchi energici, questi colori brillanti che costruiscono la plasticità dei corpi, perfettamente disposti nello spazio fluido, hanno fatto pensare ad una datazione anteriore al 1767, da accostare al ritorno dall’Italia, momento di grande creatività e libera invenzione per il recente apprendimento, ma anche periodo di gravi difficoltà economiche per l’artista che non aveva ancora trovato una direzione da seguire, e quindi nemmeno una sua strada per soddisfare la clientela parigina, ancorata ad un gusto ben preciso. La svolta, e la presa di coscienza di dovervisi adeguare, avverrà invece dalla seconda metà degli anni Sessanta, quando si dedicherà ai ritratti, ai soggetti leziosi, costruendone le fattezze con segno preciso, con sicurezza di tratto e colori sgargianti, come risulta nell’Escarpolette, sublime composizione che esprime tutta la sua modernità non nel soggetto ma nella resa dell’atmosfera, pregna di sensualità e ironia. Inoltre, con la morte del maestro Boucher nel 1770, Fragonard si pose come suo naturale continuatore, nella scelta dei temi e nelle caratteristiche pittoriche, consapevole che quella fosse l’unica strada per accattivarsi il pubblico.
Ma Fragonard è anche un paesaggista, un anticipatore di tendenze. Quell’attenzione per il dato naturale, per i suoi effetti straordinari creati dall’accostamento del selvaggio con il costruito, quella sensazione di onnipotenza della natura forte e protagonista di Tivoli, poteva avere paragone con i paesaggi marittimi della costa, che destano stupore per l’ampiezza della visuale, che improvvisamente, appena giunti al molo, si dipana ai loro occhi “in una vista che è tra le più belle, più ricche e magnifiche del mondo”?
Nella sanguigna Sulla strada di Velletri il pennello sfuma i particolari toccando tutte le gradazioni delle tinte brune, con magistrale abilità, immergendo le donne in passeggiata in una sorta di fantastica visione, dove i resti di tombe monumentali si alternano agli arbusti fitti e dai tronchi sottili, dove la strada si fonde con il resto dell’ambiente, non sembra tracciata, non ha consistenza. A dominare è il grande albero che occupa gran parte della parte destra della composizione, arrivando quasi a toccarne il bordo superiore, delineato in tutta la sua fragilità: non è un maestoso e vivido cipresso dal verde fogliame, ma un povero arbusto dai rami secchi e frastagliati, che dona un forte senso di decrepitezza, di malinconia. Fragonard non ha fatto altro che trasporre quel senso di rovina che i suoi colleghi avevano dato e continuavano a dare alle architetture, alla natura, quella sua natura indiscutibile soggetto di tante opere giovanili. Ma in questo foglio egli fa di più: inserisce le “tombe in rovina” viste da lui e da Bergeret sulla via per Napoli, sempre meno caratterizzate rispetto al contorno naturale, sempre come corollarie del paesaggio, in quanto omaggio a colui che era e rimaneva il più grande rovinista del secolo, Piranesi, da cui aveva appreso e colto, a Roma e in Francia. |
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