Abstract:
Secondo un articolo del Washinton Post del 2006 i programmi televisivi a tema gastronomico coprono circa il 40% del palinsesto giapponese. Queste nipponiche “prove del cuoco” offrono una finestra affascinante sulla dimensione visiva del cibo, in Giappone, alla quale sono devolute grandi quantità di attenzione ed energie.
Sempre Giappone nasce la tendenza, ora diffusa in tutto il mondo, di fotografare il proprio pasto prima di iniziarlo e poi condividere l'immagine su Internet, in una sorta di estetizzante tele-commensalità; ormai è la norma, nelle Nikon, trovare un filtro specifico per il cibo, oltre che i classici filtri digitali per paesaggi, ritratti e scene notturne.
Il terzo e ultimo esempio di rappresentazione visiva del cibo in Giappone è il modellino tridimensionale a dimensioni reali detto sanpuru (dall'inglese sample). Questi oggetti decorano le vetrinette esterne di quasi tutti i ristoranti di Tokyo. La loro fortuna inizia col ventesimo secolo, quando per la prima volta un artigiano ne scolpì uno nella cera e cercò di venderlo a un ristorante, che sino ad allora aveva esposto all'esterno pietanze reali. Nel giro di pochi decenni diventarono diffusissimi nelle quattro isole, dando il via a una piccola industria dal sapore artigianale; oggi sono uno dei simboli del Giappone, al punto da spingere il famoso regista Wim Wenders a dedicare loro un breve passaggio nel suo Tokyo-Ga, o ad allestire una mostra itinerante che ha attraversato tutti i maggiori musei Statunitensi negli anni '90, intitolata “The real art of fake food”.
Recentemente il sanpuru è uscito dai confini delle vetrinette per diventare una serie di gadgets alla moda come orecchini, chiavette USB, cover per cellulare o portachiavi, tutti rappresentanti gustosi bocconcini (cioccolatini, taiyaki, dolcetti di mochi, frutta, boccali di birra...) sfoggiati da bambini, adolescenti e adulti senza apparente distinzione di età né genere. In questa spirale di rappresentazioni - cibo, modelli espositivi, gadgets, giocattoli fai-da-te - sono contenute innumerevoli informazioni storiche, sociali, materiali, che ci consentono di descrivere e cercare di comprendere quella importante porzione del complesso discorso estetico giapponese legata al cibo. Scrive Tanizaki:
“È cosa straordinariamente bella […] sollevare il coperchio di una ciotola di legno laccato; mentre ci accingiamo ad accostarla alla bocca, contempliamo per un instante il brodo, che ha una sfumatura non molto diversa da quella del recipiente, stagnare nell'oscurità impenetrabile del fondo. […] Attraverso il vapore abbiamo un vado presentimento del cibo: esso si annunzia a noi, prima di toccare il palato. Una emozione così profonda, e intima...”2
I sognanti esotismi del Libro d'ombra sono forse andati perduti nell'isteria postmoderna di Tokyo, eppure tra i filmati di youtube, manifesti appesi nei fast-food giapponesi (shokudo) e gli onnipresenti sanpuru, qualcosa di quell'occhio rapito con cui l'esteta contemplava le vestigia di un'epoca ormai in fase di rapido cambiamento è certamente rimasto e ci aiuta, almeno in parte, a interpretare i paesaggi urbani della metropoli in chiave “gastro-visuale” o, con un'acrobazia osservativa, a cogliere l'orientalismo col quale ancora si guarda al Giappone – e ai suoi cibi.