Abstract:
Come è già stato fatto notare dai più illustri esperti del settore, in un discorso ad ampio spettro sulla fotografia giapponese come idea mentale astratta e fine a sé stessa, ci si trova spesso in una posizione scomoda, a causa della sempreverde tendenza occidentale a trarre analisi stereotipate dettate da un senso di esoticità e di “giapponesità” nell’estetica di qualsivoglia opera d’arte proveniente da una realtà come quella giapponese, lontana in termini tanto spaziali quanto concettuali. È quindi interessante vedere come la Nazione in quanto categoria culturale rimanga un potente filtro attraverso cui veicolare l’interpretazione artistica, relegando opera e agente in una cornice fatta di preconcetti necessari al pubblico globale che tuttavia penalizzano l’analisi accurata dell’opera in questione. Restringendo il campo all’ambito fotografico, è particolarmente spinoso parlare di uno stile giapponese intrinseco per un medium che per sua propria natura mal si presta ad una lettura quadrata ed incasellante. Più che una qualche estetica giapponese caratteristica, quindi, è lo “specifico rapporto tra il soggetto ed il contesto sociale delle immagini che classifica un lavoro come parte integrante della tradizione fotografica giapponese.”
Ciononostante, benché sia palese che artisti di diverse nazionalità condividano canoni estetici e stilistici che non hanno nulla a che vedere con l’etnia o la collocazione geografica, nell’esaustivo libro sull’argomento The History of Japanese Photography lo studioso Kinoshita Naoyuki mette in evidenza il fatto che “minimizzare le differenze culturali diminuisce inutilmente i livelli sui quali è possibile approcciarsi ad un’opera” e che sebbene la nazionalità non costituisca un fattore determinante per il giudizio di un’opera d’arte, “tutti noi facciamo delle considerazioni su ciò che vediamo in base alle nostre esperienze personali, di cui la nostra cultura è un forte componente.”