Abstract:
Il 7 dicembre 1941 i giapponesi attaccarono le forze americane a Pearl Harbor. Lo shock conseguente generò uno stato di isteria che si diffuse in tutti gli Stati, arrivando a credere che una forza asiatica fosse in agguato e pronta ad attaccare, dall’interno, il Paese.
Questa non era la prima volta che si presentava la Yellow Peril. I primi a subirne le conseguenze furono i cinesi che erano arrivati in America dal 1850, cercando la fortuna con la ricerca dell’oro in California. Organizzati in Chinatown chiuse ed autogestite, divennero ben presto bersaglio dei movimenti anti-cinesi che li consideravano un popolo barbaro e arretrato, che portava via posti di lavoro agli americani con i loro stipendi bassi e la riluttanza allo sciopero.
Il governo americano prese delle decisioni contrarie allo spirito democratico della Costituzione degli Stati Uniti anche nei confronti dei Filippini. Durante l’occupazione delle isole nel 1898, non esitarono a creare dei campi di concentramento per i prigionieri di guerra ma anche, purtroppo, per i civili.
Nei dibattiti al Congresso, soprattutto tra gli imperialisti e gli anti-imperialisti, sulla decisione di annettere le Filippine all’Unione, emerse una perplessità bipartisan di fronte all’eventualità di ritrovarsi una razza inferiore dentro la nazione.
Molto più complessa è la questione della migrazione giapponese iniziata negli anni ’80 dell’Ottocento. Il Giappone nella seconda metà del XIX secolo aveva raggiunto in pochi decenni un livello di modernizzazione tale da mettere in crisi i pregiudizi razziali statunitensi sugli asiatici. L’intraprendenza dei giapponesi e la loro competitività ne fecero presto un avversario economico interno.
I sentimenti xenofobi nei loro confronti, scoppiarono già all’inizio del XX secolo, con episodi di segregazione e di leggi discriminatorie, soprattutto in California dove erano presenti le comunità giapponesi più numerose. Nel 1924 ci fu un blocco dell’immigrazione giapponese e, alla fine degli anni Venti, le autorità temettero che gli immigrati potessero essere coinvolti in azioni sovversive nel caso di un’eventuale guerra tra i due paesi. Aumentò così la sorveglianza sui giapponesi, residenti e non, e continuò anche negli anni Trenta e Quaranta attraverso la schedatura di organizzazioni politiche e di individui giudicati sospetti.
Dopo l’attacco di Pearl Harbor, il governo americano decise di “delocalizzare” in campi di internamento sperduti, situati al centro del paese, tutta la popolazione di origine giapponese residente negli Stati Uniti, nonostante molti di loro fossero nati negli USA e del Giappone non conoscessero neanche la lingua. Grazie al lavoro precedentemente svolto, fu facile rintracciarli nelle varie città ed organizzare il loro trasferimento nei campi in modo veloce ed ordinato. Dovettero abbandonare tutti i loro beni e solo dopo molti anni fu riconosciuto loro il danno subito e vennero rimborsati i discendenti con una cifra simbolica.