Abstract:
A fronte delle numerose proteste e manifestazioni di piazza verificatesi negli ultimi vent’anni, talune con arresti, talaltre anche con vittime, in Cina non esiste un vero e proprio movimento antagonista organizzato di protesta ecologista, né tantomeno hanno preso piede nel paese organizzazioni internazionali storicamente impegnate nella battaglia contro i danni dell’inquinamento. Sebbene Greenpeace (绿色和平) abbia sede a Beijing sin dal 2002, la sua operatività è limitata ai numerosi articoli che Greenpeace Asia Orientale (绿色和平东亚) riporta sui fatti interni del paese, WWF ha il suo sito, ma solo in quanto le specie vegetali e animali cinesi a rischio di estinzione sono numerose. Fridays for Future conta una sola attivista in Cina, Howey Ou che, dopo aver manifestato per una settimana del maggio 2019 davanti all’ufficio del governo locale a Guilin, ha percorso in lungo e in largo il paese con i suoi cartelli di protesta, senza tuttavia riuscire a fare proseliti.
Invero esistono in Cina diverse ONG ambientaliste come “Friends of Nature”, “Global Village of Beijing”, “Green Earth Volunteers” e “China Association for NGO Cooperation”, ma il loro scopo è quello di collaborare con il Ministero per la Protezione Ambientale Cinese (SEPA), analizzare le situazioni critiche, mediare con la popolazione esasperata, proporre soluzioni alternative, organizzare corsi di formazione sulle questioni ambientali nelle scuole e nelle università. Si tratta di un attivismo istituzionale che ha prodotto i suoi risultati nel senso che frequentemente tali ONG sono riuscite ad evitare l’impianto di attività industriali ad alto rischio per la salute pubblica, evitare la realizzazione di infrastrutture ad alto impatto ambientale o ad imporre un più rigido rispetto delle normative ambientali ad aziende preesistenti, a distretti industriali o a filiere produttive. Tuttavia, il sistema delle ONG cinesi non ha mai prodotto una politica antagonista.
Così qualcuno ha ipotizzato l’esistenza di un movimento istituzionalizzato di tipo topdown o di un “ambientalismo autoritario” come dice Bruce Gilley, professore di scienze politiche alla Portland University e profondo conoscitore della società e della cultura cinese. In pratica se il governo si è assunto l’onere di farsi portavoce e promotore delle istanze ambientali e di varare significative politiche d’intervento, vi sarebbe nella società civile cinese (pur sempre e comunque pronta alla protesta di massa ogniqualvolta si raggiungano elevati picchi di esasperazione) una sorta di “affidamento” fiducioso e fatalista.
In queste condizioni il ruolo della letteratura di genere che si dedica alle problematiche ambientali appare strategico e al tempo complicato. La difficoltà di mantenere un atteggiamento antagonista nella Cina post Tienanmen, senza rimaner invischiati nelle maglie della censura, è evidente. Qualche autore scrive dall’estero, qualcun altro ricopre cariche pubbliche, è docente universitario e esercita la difficile arte di veleggiare tra gli scogli.
Dopo il duro intervento repressivo di piazza Tienanmen, l’impianto coercitivo del governo cinese è sempre stato altalenante. L’attivista Howey Ou è stata interrogata e controllata, ma conduce oggi un’esistenza normale, mentre l’ambientalista Wu Lihong per le sue proteste sull’inquinamento del lago Tai ha subito tre anni di reclusione. Infine il documentario “Under the Dome” (穹顶之下) della giornalista Chai Jing. Prima che il filmato uscisse in rete, il Ministro per l’ambiente fu “fatto” dimettere e il suo sostituto si complimentò ufficialmente con l’autrice. Insomma, in Cina non è certo semplice scrivere romanzi di letteratura ecocritica. Tutti tali scrittori hanno comunque la dura consapevolezza di essere testimoni, di svolgere un importante ruolo di rappresentanza e sollecitazione.