dc.description.abstract |
Discutere (dis- quatĕre), etimologicamente, significa scuotere da diverse parti. Il discutere, il percuotere, il forzare non sono azioni della verità. Ma, la verità non intende nemmeno di-mostrare o mostrare la propria stabilità, solidità ed incontrovertibilità perché l’azione, in quanto tale, non appartiene alla verità. O, almeno, l’azione intesa nichilisticamente, cioè quell’azione che costringe l’ente a nascere e a morire, provenendo dal nulla e tornando al nulla. La verità, che è verità dell’essere, è l’immediato. Che l’essere sia e che sia immediatamente noto è innegabile perché il fondamento di questa notizia risiede nell’apparire stesso di ciò che appare. E cosa appare in modo immediato, lampante e inconfutabile? Che l’essere è. Il principio parmenideo esprime questo semplice concetto: l’essere è ed è immediatamente noto. Non può essere mediato da alcun’altra cosa, da alcun presupposto, da alcuna dimostrazione. Il Destino della necessità indica la perentorietà di qualcosa che si pone in modo incondizionato; il Destino è l’assolutamente stante, cioè l’esser sé dell’essente, il non essere altro da sé, il non essere un diveniente: l’essere eterno. Tutto ciò che è, è eterno. La verità è lo sfondo intramontabile ed indimenticabile. Ed è proprio su questo sfondo, che spiccano l’errore, l’alienazione e la fede: ma la verità, essendo sfondo e varianti, forma e contenuto, è il fondamento dell’apparire di ogni errore e di ogni fede. All’apparire dell’errore, la verità - che non è “situazione” - non tramonta, ma abbandona l’errore a se stesso, cioè lascia che l’errore si autoneghi, che appaia come negazione di se stesso. Il contrasto tra errore e verità è soltanto apparente perché l’errore, essendo parte della verità, è un posto come tolto, è già da sempre oltrepassato nell’infinito apparire della verità dell’essere. L’errore, in sé, non esiste, ma esiste l’errare, cioè la posizione dell’errore (l’errore è il contenuto nullo di quel positivo che è l’errare). E l’errare è l’agire dell’uomo come volontà interpretante. L’uomo è un immortale che si persuade di essere mortale, che si illude che il Tutto sia tutto ciò che appare e che, al di fuori della terra che abita, ci sia il nulla. L’uomo vuole essere altro da sé, vuole poter esercitare violenza, forza su di sé e su ciò che lo circonda; ma questa non è che fede, speranza: la volontà, per quanto potente e determinata, non può cambiare l’essenza delle cose. L’uomo è un fedele perché è convinto di poter cambiare le cose, di poter costruire e distruggere, di poter decidere del destino delle cose, come se il destino fosse qualcosa che deve ancora realizzarsi e non qualcosa che è stante in modo incontrovertibile ed eterno. L’uomo vive nella fede, ma la fede non è verità. Nella non-verità, tutto deve mostrarsi e dimostrarsi, cioè tutto deve imporsi, deve persuadere, illudere, esercitare violenza per poter sopravvivere in un mondo in continuo divenire, all’interno del quale nulla è lo “stante” inconfutabile. La fede rende tutto labile, superficiale, dubbioso. <<Il Perturbante più profondo è il dubbio, da cui la fede non può mai liberarsi>>. Il Perturbante scuote la fede; il Perturbante spinge la fede a discutere se stessa, cioè a scuotersi da più parti, testando e dimostrando la propria fallibilità e precarietà. Tutto è oggetto di dubbio. |
it_IT |