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Sullo sfondo vi è la vicenda dell’esodo dal confine orientale. La cessione alla Jugoslavia di Istria e Dalmazia porta, tra gli anni ‘40 e l’inizio degli anni ’60 del Novecento, alla scomparsa pressoché totale della componente di lingua e cultura italiana radicata in quelle terre da secoli. Circa 300.000 persone – il numero è controverso - lasciano i loro paesi e le proprie città portandosi dietro tutto quello che possono, persino le ossa dei propri morti.
Nella vastissima letteratura sull’argomento non molto è stato scritto sulle strutture educative per minori profughi e orfani di guerra. Nel 1947 viene costituita l’Opera per l’Assistenza ai Profughi Giuliani e Dalmati che, tra le altre attività, fonda e gestisce una rete di collegi sparsi per l’Italia pensati per dare vitto, alloggio e soprattutto un’educazione ai bambini e ragazzi ospitati.
Uno di questi, il collegio “Fabio Filzi”, è al centro del presente studio. La stragrande maggioranza dei suoi ospiti era rappresentata da esuli giuliano dalmati, ma erano accolti anche un certo numero di ragazzi orfani di guerra. Il convitto è attivo dal 1948 fino ai tardi anni ’70, prima a Grado e poi a Gorizia.
Ho raccolto le storie di vita di nove ex collegiali.
Due sono i filoni principali di questo lavoro. Il primo è la ricostruzione della vita quotidiana del collegio, soprattutto nei suoi primi anni di attività. Giornate abbastanza ripetitive scandite dallo studio, dalla pratica sportiva e corale, dalle passeggiate e da una rigida disciplina non dissimile da quella che si sarebbe potuta trovare in uno qualsiasi dei molti altri collegi di quegli anni, gestiti da religiosi e non. Il secondo nucleo sono le storie di vita dei miei testimoni, prima e dopo l’ingresso in collegio e l’influenza di questa esperienza sui loro destini. Ognuna delle storie ha sullo sfondo le vicende storiche di quegli anni, vicende complesse e controverse di cui in collegio non si parlava, raccontate in questa parte per come sono vissute dai protagonisti, all’epoca poco più che bambini.
Le fonti orali sono centrali per questo lavoro. Sono documenti unici che permettono di vedere come gli eventi sono vissuti e raccontati dalle persone a qualche titolo coinvolte.
Nel nostro caso non si tratta solo della descrizione della vita collegiale, ma di ciò che resta nelle persone che l’hanno vissuta a più di sessant’anni di distanza. Dalle narrazioni dei testimoni emerge che il collegio, con la sua disciplina e rigidità spesso mal sopportate, diventa alla lunga una sorta di casa e famiglia per questi ragazzi, un luogo in cui crescono e costruiscono legami forti con i compagni e gli istitutori e si costruiscono un futuro. L’esperienza collegiale segna.
Dopo anni di silenzio e desiderio di dimenticare, un nutrito gruppo di ex collegiali si cerca e si ritrova. I legami sono più potenti delle ferite.
Si costituisce un’associazione, si organizzano raduni, convegni, mostre. Viene scritto un libro a più mani, creato un sito che per alcuni anni viene alimentato, un giornalino che continua tuttora, qualcuno ricostruisce a memoria un plastico del collegio.
Anche chi non è profugo si interessa e comincia ad approfondire le vicende dell’esodo.
Tre delle persone intervistate sono mancate dal momento dell’intervista e qualcuno di loro ha passato gli ultimi giorni a rileggerla. Qualcun altro ha confessato che dopo l’intervista ha visto l’esperienza vissuta con occhi diversi. Tutti riconoscono che gli anni collegiali sono stati determinanti per la loro formazione e hanno dato loro strumenti per affrontare le difficoltà della vita.
La letteratura sulle istituzioni educative del dopoguerra è ricca di documenti che riconoscono il valore dei benefattori che le hanno volute, ma meno si conosce dell’impatto di tali strutture educative sulla vita privata delle persone che ne hanno usufruito. Questo lavoro vuole dare un piccolo contributo a questo scopo. |
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