Abstract:
L’operazione di acquisto di azioni proprie ricopre un ruolo strategico fondamentale nella politica finanziaria delle imprese: essa costituisce infatti uno strumento polivalente di notevole flessibilità, spesso in grado di conseguire risultati altrimenti ottenibili soltanto attraverso interventi rigidi e macchinosi. Tale funzione di “mezzo alternativo” ha originato notevoli implicazioni in tema di abuso del diritto, istituto fondato proprio sull’uso alterativo dello schema formale del diritto, al fine di conseguire obiettivi diversi rispetto a quelli voluti dal Legislatore. Nello specifico, l’Amministrazione finanziaria ha rilevato dei profili di elusività nell’operazione di acquisto di azioni proprie precedentemente affrancate dal socio cedente: infatti, secondo le ipotesi dell’Amministrazione, la cessione delle quote da parte del socio persona fisica (non operante in attività d’impresa) alla società emittente, si configurerebbe, nella sostanza economica, come un recesso che, ai sensi l’art. 47 comma 7 TUIR, genererebbe un reddito di capitale. Il fulcro di tale obiezione risiede proprio nella natura del reddito prodotto, in quanto l’istituto della rivalutazione e dell’affrancamento opera soltanto nei confronti dei redditi diversi, cioè quelli derivanti dalla cessione della partecipazione e dalla conseguente realizzazione della plusvalenza. A fronte di tali contestazioni, gran parte della dottrina ritiene che l’ipotesi formulata dall’Amministrazione poggi su un errato inquadramento dell’istituto del recesso: infatti, la cessione operata dal socio cedente alla società emittente costituirebbe un contratto fra le parti e non un atto unilaterale, come è invece il recesso. Nel silenzio della Cassazione, la giurisprudenza si è spesso pronunciata a favore della tesi della dottrina, mentre l’Amministrazione ha nuovamente rivendicato il principio guida di substance over form.