Abstract:
Alla fine delle grandi ed intense stagioni si arriva a un punto nodale in cui si tirano le somme dell’esperienza appena trascorsa. Si tratta di fare i conti col prima, col durante e col dopo: ciò che è stato, ciò che poteva essere, ciò che è e ciò che, alla fine, sarà. Così è stato alla fine degli anni ’70 quando – tra le violenze, le speranze e le tragedie di una tormentata stagione iniziata un ventennio prima – la partita tra la sinistra rivoluzionaria e lo Stato italiano stava per chiudersi mentre altre, altrettanto intense, cominciavano ad aprirsi. In eredità non restavano altro che i nodi irrisolti, le mezze verità, realtà che apparivano sempre più “opache”, gli animi e gli scorni di chi aveva dovuto constatare la propria sconfitta. Molti intellettuali – militanti e non – si trovarono a fare i conti con una stagione intensa e tormentata, intrisa di vitalità ma affossata dalla tragedia della violenza e da un potere percepito come invisibile, all’interno della quale concetti quali “verità”, “ragione” e soprattutto “realtà” vennero messi in crisi. Il post-modernismo, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, aveva infatti preso piede come corrente culturale che metteva in discussione l’esistenza stessa della realtà constatando la fine delle “grandi narrazioni” delle ideologie. In Italia, però, questa tendenza andò a cozzare con il particolare clima della stagione appena trascorsa: la realtà in sé non venne messa in discussione ma, anzi, da un lato un gruppo di intellettuali “di sinistra” iniziò una intensa discussione per cercare nuovi metodi per descrivere la realtà, dall’altro alcuni militanti – quelli fuggiti, quelli rimasti e quelli incarcerati dopo il 7 aprile – intesero la loro professione di intellettuali come un modo di agire nella realtà.