Abstract:
La tesi si caratterizza come una analisi, filtrata dalle considerazioni di Piero Gobetti, sul carattere contraddittorio dell'aggettivo ‘liberale’ applicato alle vicende storico-politiche dell’Italia dal Risorgimento al Primo dopoguerra.
Gobetti traeva conferma della mancanza di una seria cultura politica nel popolo italiano dal fatto che due dei frangenti più importanti della storia d’Italia si fossero conclusi con altrettante «rivoluzioni mancate»: la fine del Risorgimento coincise con l’alleanza fra repubblicani e monarchici; al ‘biennio rosso’ si pose termine con il patto di pacificazione fra socialisti e fascisti.
Il giudizio dell’intellettuale torinese era che, per superare la crisi fascista, – una crisi di natura morale, a degna conclusione dell’«autobiografia di una nazione» fondata sul compromesso e insensibile alla serietà della lotta politica – andasse instaurato uno Stato liberale di tipo nuovo, forgiato sui bisogni delle ‘masse’, quindi sulla libertà delle classi sociali dedite alla produzione che fino ad allora non erano state coinvolte nei processi politici decisionali. Economicamente frustrata dalla sottomissione alle classi proprietarie, non meno che dall’inconsistente assistenzialismo formulato dai politici liberali e socialisti, la classe produttiva rappresentava per Gobetti la sola degna erede del nuovo liberalismo; l’unica, in altre parole, che con la nuova consapevolezza da essa acquisita durante la guerra, poteva ridare realisticamente un senso allo svuotato concetto di libertà. Questo compito di rifondazione del liberalismo su nuove basi sarebbe stato portato a termine allorquando il proletariato fosse entrato a tutti gli effetti a fare parte dello Stato: auspicio che, se nel 1924 poteva suscitare ancora qualche sincero entusiasmo, molto presto fu lasciato cadere.