Abstract:
La pratica del kendo, la “via della spada”, si presenta (ed è considerata) come qualcosa che esula dalla mera pratica sportiva. Anzi, il capitale simbolico di cui il kendo si fregia è il suo essere altro dallo sport: non un’attività fisica competitiva e arida, ma una disciplina del corpo e della mente che affonda le sue radici nell’etica guerriera del samurai e nella saggezza del buddhismo zen. Le suggestioni e le promesse di un Oriente che si offre come alternativa a una prospettiva limitante e ormai fin troppo conosciuta come quella occidentale sono tra le maggior spinte a uscire dalle proprie vecchie abitudini, nell’atto di costruire sé stessi confrontandosi con l’altro da sé. Un altro da sé che trae valore proprio dal suo essere altro, perché promette di arricchire l’individuo alla ricerca del miglioramento personale dotandolo di conoscenze, virtù e sensibilità inedite e alternative, precluse a chi invece decide di non compiere il “salto”, al mediocre che preferisce rimanere nella palude annichilente, ma rassicurante, dell’abitudine. La pratica del kendo sarà dunque strumentale a costruire la propria individualità tramite l’imposizione di una disciplina, che incida sul nostro corpo le prove tangibili del nostro valore. Ma perché imporsi una disciplina? Perché voler uscire dall’abitudine della quotidianità, al fine di trovare nuovi e ulteriori strumenti per migliorare noi stessi? Perché spendere tanto tempo ed energie nella pratica del kendo, che per alcuni individui può abbracciare anni e anni, dalla giovinezza fino all’età più avanzata, di pratica appassionata, costante e talvolta sfiancante? Per rispondere a queste domande, farò riferimento in particolare all’opera del filosofo tedesco Peter Sloterdijk, che nella sua opera Devi cambiare la tua vita (2007) illustra il concetto di antropotecnica, in cui il kendo rientra. L’antropotecnica descritta da Sloterdijk è un vero e proprio sistema immunitario di natura mentale, pratica e simbolica, costruito per scongiurare l’horror vacui di un’esistenza priva di punti di riferimento naturalmente dati, e soprattutto per far fronte e debellare la paura della morte. Tramite l’antropotecnica, l’uomo instaura un rapporto di senso col mondo e soprattutto dà un significato alla sua vita, colmandone i vuoti inserendo ogni atto umano o elemento del mondo in una costellazione di segni e simboli, intrecciati tra loro in un rapporto di senso che testimoni l’ “esserci-nel-mondo”. Nel corso della tesi illustrerò come il kendo sia uno di quegli esercizi, di cui l’antropotecnica si compone, che l’uomo da sempre compie per elevarsi spiritualmente e fisicamente, spinto da una tensione derivante dall’imperativo assoluto “Devi cambiare la tua vita!” (ripreso da una poesia di Rilke) perché così non si può più andare avanti; un modo per affermare sé stesso e costruire la propria identità, di modo da non scomparire nel magma caotico di un mondo liquido e amorfo. Il problema identitario è difatti il motore che spinge gli individui a diventare, nel nostro caso, praticanti di kendo; a tal proposito, sarà fondamentale anche illustrare il fenomeno dell’orientalismo come luogo dell’antropotecnica. Il mito di un Oriente come alterità radicale rispetto all’Occidente è stato smascherato nella sua inconsistenza e arbitrarietà dagli studi di Edward W. Said in poi, e rivelato come rappresentazione europea di un’alterità costruita come tale (che non è tale in natura), per permettere al mondo europeo di definire prima di tutto sé stesso. Il suo presentarsi come un’alterità completiva dell’individuo occidentale, una chiave per esprimere potenzialità soffocate e possibilità inesplorate, è il canale attraverso cui riesce a far presa, ovvero facendo leva sulle lacune identitarie dell’essere umano, proponendosi come rimedio ad esse.